L’attuale fase di globalizzazione dei mercati agroalimentari:

strategie competitive ed etica alimentare delle imprese italiane

Valeria Sodano 1


Introduzione2

Il mercato agroalimentare mondiale sta attraversando una fase di profonda ristrutturazione, con una ridefinizione della specializzazione produttiva e della posizione competitiva dei diversi attori. Le spinte al cambiamento sono diverse: l’emergenza di nuovi grandi attori quali i paesi asiatici ad elevato tasso di sviluppo, l’innovazione tecnologica, le nuove istanze dei consumatori, la progressiva liberalizzazione degli scambi, il trasferimento delle competenze di intervento dal livello nazionale a quello sopranazionale, le strategie competitive dei grandi gruppi industriali e del dettaglio alimentare. Ci chiediamo se alla luce delle nuova realtà internazionale, quali siano le capacità di adattamento del settore agroalimentare italiano rispetto ai mutamenti in atto e se sia possibile individuare delle azioni di intervento pubblico per sostenere la competitività delle imprese italiane e nel contempo per soddisfare le istanze di natura etica cui l’offerta alimentare del ventunesimo secolo deve rispondere. Tali istanze “etiche” riguardano la produzione di quei beni pubblici indispensabili per uno sviluppo equo e sostenibile di un paese avanzato e la cui produzione è strettamente legata a quella alimentare: sicurezza alimentare; difesa dell’ambiente naturale, mantenimento del patrimonio culturale legato alla gastronomia ed agli stili alimentari tradizionali; promozione di modelli alimentari coerenti con una corretta politica sanitaria di prevenzione.

Il primo paragrafo delinea l’attuale scenario competitivo, alla luce del processo di globalizzazione in corso. Il secondo paragrafo delinea brevemente l’evoluzione storica del settore e le strategie attualmente dominanti. Il terzo paragrafo descrive la posizione dell’agroalimentare italiano sul mercato internazionale. Il quarto paragrafo delinea le principali minacce e opportunità con le quali si confrontano le imprese italiane ed offre alcuni suggerimenti circa possibili interventi pubblici.

Il principale elemento che emerge dal lavoro è che politiche di collaborazione inter-impresa tese alla costruzione di un tessuto produttivo locale integrato, sembrano di gran lunga vincenti, almeno nel lungo periodo, rispetto a politiche competitive basate sul vantaggio di costo. Di particolare interesse risultano quelle politiche di valorizzazione della produzione che facciano leva su servizi meno tangibili quali la sicurezza alimentare ed ambientale, nonché sul rispetto di una “genuina” etica degli affari, e che rispondano alle esigenze dei settori più avanzati della domanda del mercato europeo.


1. Lo scenario attuale: globalizzazione e mercati agroalimentari

Il valore complessivo del mercato agroalimentare mondiale è dato dalla somma dei valori aggiunti dei diversi comparti che costituiscono l’insieme del settore agroalimentare, vale a dire agricoltura, industria di trasformazione, commercio all’ingrosso, dettaglio alimentare e foodservice (o settore della ristorazione). Con l’aumentare del livello di sviluppo economico generalmente la contribuzione dei settori del commercio al dettaglio e del food service al valore aggiunto totale agroalimentare tende a crescere in rapporto a quella agricola ed industriale.

L’attuale mercato agroalimentare è connotato da un elevato livello di globalizzazione. Il termine globalizzazione si riferisce generalmente all’elevata interdipendenza esistente tra le diverse economie nazionali. In parte la globalizzazione ha a che fare con la crescita del volume delle transazioni internazionali, ma è sbagliato ridurre il fenomeno alla crescita degli scambi3. Attualmente le economie nazionali sono interdipendenti non in virtù dei flussi di commercio internazionale, ma soprattutto in virtù delle strategie delle grandi imprese multinazionali e dell’esistenza di organizzazioni sopranazionali quali il WTO ( Organizzazione del commercio internazionale ) che hanno preso il posto degli stati nazionali nella delicata funzione di regolamentazione dell’economia. Agli inizi degli anni ottanta le dinamiche competitive interne a molti settori produttivi portarono ad una elevata concentrazione ed al conseguente bisogno delle imprese di espandere il proprio mercato di riferimento, con la ricerca di nuovi mercati da colonizzare. La liberalizzazione dei mercati finanziari e l’apertura agli investimenti esteri da parte dei paesi meno sviluppati offrì alle imprese l’opportunità da un lato di perseguire strategie di vantaggio di costo attraverso la delocalizzazione degli impianti (in paesi a minor costo della manodopera e con ridotti standard ambientali), e dall’altro l’opportunità di sfruttare le fonti di rendita offerte dalla riconfigurazione dei mercati finanziari su scala internazionale (con il conseguente effetto ampiamente studiato nel corso degli anni ottanta di finanziarizzazione delle imprese). In un contesto “globale” le grandi imprese hanno sostenuto e “guidato” lo sviluppo di organismi internazionali capaci di stabilizzare il quadro di riferimento istituzionale ed orientarne le regole a favore delle attività dei grandi capitali. In parte il WTO è il frutto di tali dinamiche e la sua istituzione ha segnato effettivamente il passaggio ad una economia globale largamente intesa, vale a dire dove la dimensione globale (e sopranazionale) domina formalmente su quella locale (e nazionale).

In definitiva, aumento degli scambi commerciali, raggio di azione sopranazionale delle grandi imprese, cessione ad una organizzazione sopranazionale della politica commerciale da parte dei singoli stati nazionali, sono i principali elementi che denotano il fenomeno della globalizzazione. A tali tre elementi ne va aggiunto un quarto, quello della standardizzazione dei modelli di consumo (e insieme ad essi dei modelli culturali e di organizzazione sociale) indotto sia dalle maggiori opportunità di contatto (reale e virtuale, tramite l’industria della comunicazione) sia dalle strategie produttive e di marketing delle grandi imprese transnazionali.

La liberalizzazione degli scambi perseguita dalla WTO, pietra miliare del processo di globalizzazione, ha spinto, attraverso la riduzione delle tariffe commerciali e del sostegno pubblico, verso una progressiva privatizzazione e deregolamentazione dell’economia. Nel settore agroalimentare tale processo ha condotto negli ultimi venti anni alla determinazione dei seguenti tre caratteri del quadro istituzionale col quale si confrontano le imprese ed i consumatori: 1) la riduzione del sostegno all’agricoltura; 2) l’armonizzazione della legislazione ambientale e di food safety; 3) la protezione dei diritti di proprietà intellettuale e l’innovazione tecnologica.


La riduzione del sostegno all’agricoltura

L’agricoltura insieme al settore tessile e aeronautico ha beneficiato da sempre di clausole speciali in deroga alle regole generali del GATT ( organizzazione dalla quale è nata il WTO ). L’accordo sull’agricoltura siglato a Marrakech nel 1994 in occasione della costituzione del WTO fissava come obiettivi generali la riduzione delle tariffe e il divieto delle sovvenzioni alle esportazioni, ma elencava una serie di casi e situazioni in cui gli stati potevano fissare un certo grado di sostegno4. Negli ultimi anni lo speciale status legale dell’agricoltura nel WTO è stato messo in discussione, a partire soprattutto dalla constatazione degli effetti negativi sullo sviluppo dei paesi più poveri dell’eccessivo sostegno accordato all’agricoltura dai paesi avanzati. Con l’accordo di Doha è stato definito l’obiettivo di una totale liberalizzazione ma a tutt’oggi non sono stati siglati accordi che ne garantiscano l’effettivo conseguimento. Inoltre recenti studi (Panagaryia, 2005; Bureau et al., 2006) hanno evidenziato come gli effetti positivi sui paesi in via di sviluppo di una eliminazione dei sussidi all’agricoltura da parte dei paesi occidentali siano stati sovrastimati dalle passate ricerche. Tre elementi portano ad un ridimensionamento dell’effettivo cambiamento indotto da una maggiore liberalizzazione: 1) l’insieme dei paesi in via di sviluppo beneficerebbe in modo molto disomogeneo, con effetti addirittura molto negativi per alcuni paesi particolarmente poveri come quelli che si avvantaggiano degli accordi commerciali preferenziali di “non-reciprocità”; 2) introducendo nei modelli di simulazione degli effetti della liberalizzazione elementi che tengano conto della limitata concorrenzialità dei mercati o semplicemente cambiando alcuni parametri di caratterizzazione dell’equilibrio del mercato del lavoro e di alcuni input, i vantaggi dei paesi poveri si riducono ed appaiono distribuiti in modo molto meno uniforme; 3) gli effetti positivi della liberalizzazione potrebbero essere più che controbilanciati dagli effetti negativi, per i paesi poveri, del maggior ruolo del settore privato, ed in particolare dei grandi gruppi stranieri, nella “gestione” delle politiche del settore. L’esempio tipico è quello dell’abbattimento di barriere non tariffarie, quali gli standard pubblici di qualità, al quale si accompagna la diffusione di standard di qualità “volontari” imposti dai grandi retailers ai fornitori agricoli ed industriali.


L’armonizzazione della legislazione ambientale e di food safety

L’accordo sull’applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS Agreement)5, limitando il ricorso a molti interventi di politica ambientale e di sicurezza alimentare accusati di erigere barriere non tariffarie 6,ha spinto progressivamente verso un arretramento del settore pubblico in tali campi di intervento. Nell’UE il processo di armonizzazione della legislazione per la sicurezza alimentare, necessario prima per il completamento del mercato unico e poi per il rispetto dei diversi accordi siglati in sede WTO, ha seguito la strada di una riduzione del livello degli standard (in base al principio del mutuo riconoscimento) e successivamente di un progressivo arretramento della funzione degli organismi pubblici (Sodano, 2006c). Questi sono passati da un ruolo di definizione e controllo diretto degli standard, ad un ruolo di coordinamento e di indirizzo generale (attraverso la promulgazione della general food law e l’istrituzione dell’authority per la sicurezza alimentare), lasciando al settore privato maggiori spazi di libertà nei processi di definizione degli standards, certificazione e garanzia della qualità. Negli ultimi anni l’aumento del rischio ambientale, sanitario e sociale associate all’allargamento geografico dei mercati ed alle nuove tecnologie, ha provocato l’emergenza di nuovi movimenti sociali attivi nelle richiesta di un maggiore controllo della filiera alimentare ed un forte attivismo da parte del settore del retail nei processi di certificazione (USAID, 2005). Attualmente le catene del grande dettaglio dei paesi avanzati sono dotati di propri standard di prodotto. Negli ultimi cinque anni, con l’accelerazione dei processi di globalizzazione e di concentrazione del settore della distribuzione, la collaborazione tra dettaglianti è aumentata e molte catene distributive hanno definito standards comuni (come EUREPGAP, CIES’s Global Food Safety Initiative, British Retail Consortium), affidandone la certificazione a imprese terze indipendenti che operano su scala globale (come Primus lab, Cert ID, Davis Fresh Technologies). Si registrano anche iniziative di collaborazione tra dettaglianti e ONG che gestiscono programmi di aiuto alimentare (Bush, Thiagarajan, Bain, 2005). Attualmente in tutto il mondo esiste un ampio spettro di certificazioni che coprono ormai ogni aspetto della produzione e distribuzione dei prodotti alimentari. Il recente rapporto redatto dall’USAID (Bush et al., 2005a, 2005b) riporta una lista di 17 tipi di certificazioni, private ma anche “quasi-pubbliche” (quando è lo stato che funge da certificatore esterno): certificazioni propriamente di food safety; HACCP; ISO 9000 e ISO 14000; tracciabilità; marchi di origine; produzioni biologiche; certificazioni per l’esportazione; commercio equo; certificazioni sulle condizioni di lavoro (labour certifications); iniziative di commercio etico; EUREP; marchi ambientali; certificazioni fitosanitarie, marchi di responsabilità sociale di impresa; benessere degli animali; certificazioni di assenza di organismi geneticamente modificati.


La protezione dei diritti di proprietà intellettuale e le politiche di innovazione

L’accordo sulla difesa della proprietà intellettuale (TRIPs), introducendo la possibilità della brevettabilità degli organismi viventi (piante e animali ottenuti con tecniche di ingegneria genetica) e dei nuovi materiali ottenuti tramite la modificazione a livello atomico della materia (i nuovi materiali nanotecnologici) ha contribuito ad incentivare gli investimenti privati in innovazione nel campo delle biotecnologie e delle nanotecnologie in una ottica di profitto a breve termine e di “colonizzazione” dei mercati dei paesi in via di sviluppo. Il settore agroalimentare sperimenta già all’oggi una grande dipendenza economica e tecnologica dai grandi gruppi multinazionali (di proprietà generalmente statunitense o comunque dei paesi occidentali più ricchi) del settore chimico, sementiero e farmaucetico. Tale dipendenza aumenterà drammaticamente nei prossimi anni a causa della rivoluzione nanotecnologica appena cominciata ma che sta rapidamente cambiando la struttura e l’organizzazione del settore. Nei paesi sviluppati sia il settore privato che quello pubblico stanno effettuando enormi investimenti in queste tecnologie (nel 2004 in tutto il mondo sono stati spesi circa 10 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo per le nanotecnologie) ed i prodotti nanotecnologici continuano ad essere immessi sul mercato a ritmo costante. Circa 475 prodotti che contengono invisibili nanoparticelle, senza regolamentazione e senza obbligo di indicazione in etichetta, sono già in commercio (sono prodotti alimentari, pesticidi, creme solari, cosmetici, telai per auto ed altri ancora) e migliaia di altri sono in arrivo (ETC group, 2005).

Al di là dei rischi purtroppo ancora sottovalutati per l’ambiente e la salute di tali nuove tecnologie è oramai chiaro che esse pongono sicuramente enormi rischi economici per le economie meno avanzate. In primo luogo sono a rischio quei paesi le cui economie si basano sulla produzione di materie prime che saranno sostituite dai nuovi materiali nanotecnologici. In secondo luogo si pone un problema di un eccessivo potere economico a vantaggio dei grandi gruppi (e dei paesi nei quali risiedono i possessori del capitale di queste società) proprietari dei diritti di proprietà sulle conoscenze tecno-scientifiche necessarie per lo sviluppo e lo sfruttamento di tali tecnologie.


2. Le strategie delle imprese ed i nuovi assetti competitivi del mercato mondiale

Le attuali strategie delle imprese operanti nel settore agroalimentare ed i risultanti assetti competitivi possono essere letti alla luce delle passate dinamiche competitive e dell’intero processo storico di evoluzione organizzativa del settore.

Le dinamiche organizzative all’interno del moderni sistemi agroalimentari possono essere descritte considerando due dimensioni strutturali-organizzative, il grado di concorrenzialità dei mercati ed il grado di integrazione verticale all’interno del sistema. Storicamente è possibile identificare tre importanti fasi di sviluppo del sistema: una fase concorrenziale-disintegrata; una fase monopolistica-integrata; una fase monopolistica-disintegrata.

Nella fase concorrenziale-disintegrata il sistema agroalimentare assume una dimensione nazionale, vale a dire che al di là dei possibili flussi di import-export per alcune derrate, l’industria alimentare si approvvigiona da e vende a principalmente agricoltori e clienti del proprio ambito territoriale di appartenenza. In tale fase, che storicamente possiamo riferire alla fase appena precedente a quella del consumo di massa, i beni alimentari sono caratterizzati da tecnologia standardizzata e ridotto servizio aggiunto. Il livello di concentrazione nei tre stadi della filiera agro-alimentare è anch’esso basso, senza posizioni monopolistiche di rilievo. Prodotti standardizzati e bassa concentrazione fanno sì che i rapporti verticali di scambio tra i diversi attori della filiera siano basati su contratti di breve periodo a ridotto contenuto normativo e che i mercati si avvicinino di molto alla forma ideale della concorrenza perfetta. Preminente in questa fase è il ruolo del commercio all’ingrosso che in virtù della propria importanza strategica ed economica detiene il maggior potere nel sistema.

Nella fase di sviluppo monopolistica-integrata l’attore più dinamico del sistema è il settore dell’industria alimentare. Spinte dalla crescita della domanda alimentare dovuta all’accelerato sviluppo economico dell’era del capitalismo di massa e dai processi di innovazione tecnologica le imprese di trasformazione alimentare sperimentano una crescita elevata. La struttura del sistema diviene via via meno concorrenziale, con un aumento veloce della concentrazione a livello industriale e più lento a livello agricolo e del dettaglio. Col passaggio dal consumo di massa al capitalismo differenziato, le imprese industriali tentano poi di conservare l’elevato livello di profittabilità raggiunto in precedenza attuando una serie di politiche che possono essere così riassunte:

Nel suo stadio di sviluppo più avanzato la fase monopolistica-integrata vede un sistema agroalimentare caratterizzato dal predominio strategico ed economico delle grandi imprese-marchi industriali e da un elevato grado di efficienza produttiva e distributiva, con rapporti verticali tra produttori e distributori, basati da un lato sulla maggiore forza contrattuale e dominio strategico dell’industria, e dall’altro sulla “gestione collaborativa” di quegli strumenti di supply chain management, in particolar modo per la gestione efficiente dei flussi informativi e delle attività di logistica, che permettono una riduzione dei costi di entrambi gli attori. Nel suo stadio di declino e di crisi tale fase sperimenta un’estensione del processo di consolidamento al settore del dettaglio che accresce il proprio potere di mercato sia nei riguardi dei clienti che dei fornitori. Perso l’equilibrio organizzativo del canale “amministrato” dall’industria in virtù del proprio potere economico e contrattuale, si apre una stagione di elevata competizione verticale, con il dettaglio che guadagna progressivamente posizioni di vantaggio grazie alle accresciute dimensioni delle imprese di distribuzione ed all’accurato uso strategico delle marche commerciali. Un importante effetto della maggiore competizione verticale è l’abbandono di quello sforzo collaborativo teso a massimizzare l’efficienza del canale.

Si attua così il passaggio alla terza ed attuale fase di sviluppo, di tipo monopolistica disintegrata. Le strategie implementate dalle grandi imprese del sistema in questa fase sono in gran parte una risposta all’erosione dei margini di profitto conseguenti da un lato ad una crisi di domanda associata al rallentamento della crescita delle economie avanzate, e dall’altro alle guerre di prezzo intraprese da alcune grandi imprese, sia dell’industria che della distribuzione, per sbaragliare rivali scomodi e preparare la strada ad un maggiore controllo del mercato. Tra le strategie maggiormente seguite ricordiamo:

Un tratto caratteristico di tale ultima fase di sviluppo del sistema è il cambiamento della posizione delle imprese di piccola e media dimensione, le quali perdono autonomia sui mercati standardizzati (divenendo per la maggior parte sub-fornitrici delle imprese in possesso dei grandi marchi industriali) e si indeboliscono sui mercati di nicchia, dove subiscono la concorrenza delle grandi imprese che perseguono politiche di differenziazione particolarmente aggressive.

Ciò che si osserva attualmente è un sistema alimentare altamente globalizzato, con la presenza di grandi gruppi transnazionali che dominano il mercato. Tali gruppi tendono a concentrare il proprio sforzo di investimento sul capitale di marca e finanziario, utilizzando una rete “a connessioni deboli” di imprese produttrici sub-fornitrici. Per rete “a connessioni deboli” si fa riferimento ad una rete dove le imprese sono legate da rapporti contrattuali poco stabili e di medio termine, rapporti mutevoli in relazione alle diverse opportunità di profitto (legate ad esempio a delocalizzazione, dismissione di linee produttive, ecc.) che di volta in volta si presentano alle imprese committenti. Nel complesso attualmente nel sistema, il grado di concentrazione per singolo mercato, misurato a partire dalle unità produttive “indipendenti”, è relativamente basso, in virtù del processo di disintegrazione appena descritto. Tale basso livello di concentrazione non deve trarre in inganno sull’effettivo grado di concorrenzialità del sistema, in quanto esso maschera una organizzazione reticolare a struttura asimmetrica, dove i soggetti che fungono da hubs7 (per lo più le grandi imprese, industriali e commerciali, in possesso di un elevato capitale di marca) sono legati da legami unidirezionali (dove la direzione in termini si trasferimento di risorse va dai nodi periferici a quelli centrali) con una miriade di nodi periferici “a legame unico” (vale a dire che ogni nodo periferico è legato ad un solo nodo centrale-hub) e da legami bidirezionali con gli altri nodi centrali, legami bidirezionale che provengono ad esempio da accordi collusivi e/o alleanze strategiche e accordi collaborativi inter-impresa di varia natura.

Infine, una importante caratteristica dello scenario appena delineato è che esso pone nuovi interrogativi di natura etica, quali: 1) l’accettabilità dei rischi connessi alle bio e nano tecnologie; 2) la desiderabilità sociale dei cibi multifunzionali; 3) la responsabilità sociale delle grandi imprese multinazionali con riferimento: alla sicurezza alimentare, ai rischi alimentari, al benessere degli animali, alla salvaguardia dell’ambiente, all’equità sociale. Tali interrogativi dovranno trovare risposta nell’implementazione di meccanismi di governance per una etica alimentare, che dovranno coinvolgere non solo le imprese private, le organizzazioni del terzo settore ed il settore pubblico ma anche tutta la società civile (Delbone M. et al., 2007).




3. L’agroalimentare italiano e la sua posizione internazionale

Le tabelle 1-7 riportano alcuni dati descrittivi del settore agroalimentare italiano relativi all’anno 2003 (fonte: INEA, 2005).

La dimensione economica del settore è di circa 203 miliardi di euro, pari al 15,6% del PIL. L’incidenza del valore aggiunto agricolo sul totale dell’economia è del 2,3, al di sopra della media dell’UE, pari rispettivamente a 1,6 per l’ UE a 15 e a 1,7 per l’UE a 258. Il valore totale dei consumi alimentari è di 121 miliardi circa di euro (anno 2003), di cui circa il 47% per servizi di ristorazione.

Le carni e gli ortaggi sono le prime produzioni agricole in valore, seguite da cereali, latte, frutta ed agrumi. La bilancia commerciale agroalimentare è negativa con un saldo assoluto negativo di 7423 milioni di euro, al quale contribuiscono in modo pressoché uguale l’agricoltura e l’industria alimentare. Frutta e ortaggi freschi (ad esclusione degli agrumi) per quanto riguarda i prodotti agricoli, e vino, derivati dei cereali e ortaggi trasformati, per quel che riguarda i prodotti trasformati, sono i settori con la maggiore propensione all’esportazione. Cereali e animali vivi (tra i prodotti agricoli) e carni, prodotti caseari e pesce. (tra i prodotti trasformati) sono invece i maggiori responsabili del saldo commerciale negativo. A livello territoriale vi è una forte asimmetria a vantaggio del Centro-Nord, dove sono situate tutte le regioni con una bilancia commerciale agroalimentare positiva: Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Toscana.

In confronto al posizionamento dei diversi paesi sul mercato agroalimentare mondiale, l’Italia presenta dati non in linea con l’area dei paesi sviluppati alla quale appartiene. A livello mondiale si assiste ad una netta contrapposizione tra paesi meno sviluppati, con una bilancia agroalimentare negativa ed una maggiore propensione all’esportazione dei prodotti agricoli primari rispetto ai prodotti trasformati, e paesi più avanzati, con una bilancia agroalimentare positiva ed una maggiore propensione all’esportazione dei prodotti trasformati rispetto a quelli agricoli. Al di fuori dell’India che tra i paesi a basso reddito è l’unico ad essere esportatore netto sia di prodotti primari che trasformati, gli altri paesi a basso reddito risultano o esportatori netti di prodotti primari, ma importatori netti di prodotti trasformati, o importatori netti di entrambi i prodotti (come ad esempio la Cina). Tra i paesi ad alto reddito la maggioranza di paesi OCSE (come l’EU a 15, e i paesi NAFTA) sono esportatori netti sia di prodotti primari che trasformati, mentre solo una minoranza sono importatori netti di entrambi i prodotti. Inoltre nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un aumento della specializzazione produttiva in prodotti trasformati da parte dei paesi ricchi e in prodotti primari agricoli da parte dei paesi poveri (van Tongeren e van Meijl, 2006). Tale dato è coerente con la fase di sviluppo di tipo monopolistico-disintagrata descritta nel paragrafo precedente che vede le grandi imprese del dettaglio, del foodservice e dell’industria alimentare delle economie avanzate rafforzare le proprie quote di mercato sul mercato mondiale, aumentando nel contempo le proprie forniture di materia prima presso i produttori a basso costo dei paesi meno sviluppati.

Un altro dato che pone l’agroalimentare italiano in linea con i paesi meno sviluppati più che con quelli sviluppati è l’estrema debolezza strutturale di cui soffre il settore. Con 67000 imprese operanti nell’industria alimentare, due milioni di aziende agricole e la presenza ancora notevole del dettaglio tradizionale, l’Italia ha una dimensione media di impresa in tutti gli stadi della filiera agroalimentare ben al di sotto della media dei paesi OCSE.

Un altro dato caratteristico del sistema agroalimentare italiano, dagli aspetti questa volta positivi, è la ricchezza di prodotti tradizionali che si sono conservati grazie alla resistenza di modelli di consumo e tradizioni enogastronomiche locali. L’Italia è tra i paesi dell’UE che maggiormente hanno usufruito del reg. 2081 che offre l’opportunità dell’uso dei marchi collettivi di denominazione di origine. Con 153 prodotti tipici al suo attivo l’Italia è al primo posto nell’Unione per numero di DOP e IGP e con 343 vini DOC e DOCG è al secondo posto dopo la Francia. Inoltre al di là dei marchi di origine certificati si stima che il patrimonio di prodotti tipici locali ammonti a circa 4000 voci. I prodotti tipici rappresentano sicuramente un grande valore dell’agroalimentare italiano, non tanto per la loro contribuzione al fatturato complessivo del settore, essendo i volumi di produzione estremamente bassi, ma soprattutto per il loro contributo al capitale di marca del “made in Italy”. Tale capitale di marca oltre che essere a disposizione di molte componenti del settore manifatturiero nazionale nutre l’industria turistica ed in particolare quella che unisce i prodotti artistici ed ambientali a quelli enogastronomici, come nel caso paradigmatico della Toscana. In un certo senso si può affermare che il “valore aggiunto” dei prodotti agroalimentari tipici sia di gran lunga superiore a quello direttamente monetizzabile. Tali prodotti infatti agiscono da volano per lo sviluppo dell’intera economia attraverso l’accantonamento di quella ricchezza immateriale tipica del capitale di marca. Nel caso del capitale di marca associato a marchi privati tale ricchezza si riflette direttamente nella valutazione economica delle imprese che li posseggono (attraverso ad esempio un valore elevato delle azioni nel caso delle Spa). Nel caso di marchi pubblici, quali sono in parte le denominazioni di origine ed il marchio che abbiamo genericamente indicato del “made in Italy”, tale ricchezza è più difficile da valutare ma non per questo deve essere sottovalutata e “salvaguardata” da opportune politiche di sviluppo e protezione della/e marca/che che in questo caso non possono che essere pubbliche.




Tab. 1 Le componenti del sistema agroindustriale italiano ai prezzi 2003 (mio. Euro).

Valore aggiunto dell’agricoltura (comprese silvicoltura e pesca)

30882

Consumi intermedi agricoli

15602

Commercio e distribuzione

69924

Valore aggiunto dell’industria alimentare

26631

Valore aggiunto servizi di ristorazione

31561

Imposte dirette settori agroindustriali

10716

Contributi alla produzione

1185

Investimenti agroindustriali

16440


Tab. 2 La produzione agricola (prezzi 2003, mio. Euro).

carni

9354

Ortaggi

7153

Cereali e legumi secchi

4964

latte

4415

Frutta e agrumi

3888

vite

3564

Florovivaismo

2557

olivo

2130

foraggere

1811

Uova e altri

997

Colture industriali

989


Tab. 3 Commercio estero milioni di euro 2003


import

export

Totale agricoltura

9194

4152

Totale industria alimentare

16825

14444

Totale bilancia agroalimentare

26019

18596


Tab. 4 Principali Prodotti agricoli a saldo commerciale positivo


import

export

Frutta fresca (escluso agrumi)

982

1812

Legumi e ortaggi freschi

674

781

Tabacco greggio

147

260

Fiori e piante ornamentali

363

458



Tab. 5 Principali prodotti agricoli a saldo commerciale negativo


import

export

Cereali

1440

62

Animali vivi

1392

43

Cacao caffè droghe e spezie

602

33

agrumi

240

87


Tab. 6 Principali produzioni dell’industria alimentere a saldo commerciale positivo


import

export

Vino

232

2640

Derivati di cereali (incluso pasta)

571

2573

Ortaggi trasformati

671

1229


Tab. 7 Principali prodotti dell’industria alimentare a saldo commerciale negativo


import

export

Carni fresche e congelate

3182

557

Prodotti lattiero-caseari

2692

1369

Pesce lavorato e conservato

2359

250





4. Minacce, opportunità e capacità di adattamento

Nel complesso si può affermare che rispetto agli stadi di sviluppo del settore agroalimentare osservati nei paesi sviluppati, l’Italia non abbia portato a termine la fase di sviluppo di tipo monopolistico-integrata ma sia rimasta in qualche modo ferma per molti aspetti alla fase precedente. Attualmente nel comparto agroalimentare italiano coesistono diverse realtà.

Nel settore del dettaglio vi sono da un lato punte avanzate vicine ai moderni modelli organizzativi del dettaglio organizzato e, dall’altro, un dettaglio tradizionale, indice di arretratezza. Tuttavia il dettaglio tradizionale può assumere anche una valenza positiva, quando testimonia un attaccamento a stili di vita ed alimentari che riconoscono l’importanza del rapporto interpersonale e della fiducia nella vendita e nella comunicazione della qualità di prodotti non standardizzati.

Nell’industria alimentare tranne poche grandi imprese con un campo di azione internazionale (come Barilla, Parmalat, Ferrero) vi è un tessuto di piccole e medie imprese che o lavorano per i grandi marchi industriali e commerciali, oppure vendono con piccoli marchi locali che vanno a nutrire sia l’offerta dei primi prezzi che nicchie della fascia alta del mercato. La polverizzazione del tessuto produttivo industriale sebbene complessivamente sia un indicatore di debolezza del sistema, può assumere come nel caso del dettaglio una valenza del tutto negativa (quando si associa a inefficienze, economia sommersa e disarticolazione del tessuto economico-sociale, come purtroppo avviene prevalentemente nel meridione) o in parte positiva, quando deriva da peculiarità organizzative e produttive del sistema (è questo il caso della piccola industria spesso di tipo artigianale che opera nei settori di nicchia di alta qualità o della piccola impresa “integrata” sia orizzontalmente che verticalmente attraverso reti collaborative inter-impresa come nel caso della realtà cooperativa emiliana o dei distretti agro-industriali del centro-nord).

Considerazioni analoghe valgono per il settore agricolo dove il dualismo tra grandi e piccole imprese vede un tessuto di piccole imprese che operano in settori di nicchia relativamente redditizi (vedi il biologico ed alcuni prodotti tipici) ed un tessuto di imprese “marginali” che sopravvivono grazie all’aiuto pubblico o, ancor peggio, grazie alla sottoremunerazione cronica delle risorse, in particolar modo del lavoro e delle risorse ambientali, in un contesto economico locale degradato dove prevale l’economia sommersa se non la vera e propria economia criminale. Il caso delle aziende pugliesi che producono pomodoro per la trasformazione (Sodano, 2006b) è il caso più eclatante ma purtroppo non l’unico; ad esempio molte aziende agricole campane hanno tratto la loro principale fonte di reddito negli anni ottanta e novanta fungendo da discariche abusive di rifiuti pericolosi.

Tale particolare caratterizzazione strutturale e organizzativa del sistema agroalimentare italiano pone non pochi problemi nell’affrontare le sfide competitive provenienti dall’attuale evoluzione del mercato mondiale. Nel confronto con le agricolture dei paesi avanzati, dotate di migliori strutture produttive a tutti i livelli della filiera agroalimentare e di un’industria alimentare ed un dettaglio a elevata concentrazione (e con imprese leader che operano a livello internazionale e molto dinamiche nella ricerca e nell’innovazione), l’Italia risulta sicuramente svantaggiata. Tuttavia anche il confronto con sistemi caratterizzati da una pari debolezza commerciale e strutturale conduce ad un certo pessimismo circa la competitività italiana. Si prenda ad esempio il caso della Cina. La Cina soffre come l’Italia di una bilancia agroalimentare in deficit, di carenze strutturali, e arretratezza infrastrutturale e istituzionale (quest’ultima al pari di alcune zone dell’Italia meridionale). Tuttavia mentre la Cina sta attraversando un fase di crescita economica dove i consumi, ma soprattutto gli investimenti pubblici e privati in risorse sia materiali che immateriali (come la conoscenza) crescono ad un ritmo vertiginoso (Rampini, 2006), l’Italia si trova in una fase di grave recessione dovuta a fenomeni ciclici e congiunturali ma anche (ed è questo ciò che conta di più) al sensazionale impoverimento del capitale umano e sociale registrato nell’ultimo ventennio. Tutti gli indicatori di sviluppo economico e sociale pongono l’Italia agli ultimi posti nell’area dei paesi OCSE e sono spesso inferiori a quelli di alcuni paesi meno sviluppati. Gli investimenti risibili in istruzione, innovazione e ricerca sono il dato di maggiore rilievo, ma non meno importante è il dato sul contributo dell’economia sommersa e criminale alla “ricchezza” del paese.

Le tavole 1 e 2 riassumono le due principali minacce e opportunità poste dall’attuale assetto del mercato mondiale all’agroalimentare italiano, evidenziano i fattori di forza e di debolezza che possono aiutare od ostacolare lo sviluppo futuro, e suggeriscono i tipi di intervento che il settore pubblico può attuare a sostegno del settore.

La prima minaccia proviene dalla possibile colonizzazione da parte di grandi gruppi stranieri intendendo con ciò sia la sottrazione di quote di mercato del mercato italiano (è ciò che sta avvenendo rapidamente nel settore del dettaglio) che l’acquisizione delle migliori aziende e marchi italiani ad opera di imprese straniere. La polverizzazione del tessuto produttivo e la storica “pigrizia” del capitalismo italiano sono i fattori di debolezza che maggiormente espongono l’Italia a tale minaccia, per contrastare la quale è invece difficile individuare punti di forza. Una politica industriale tesa a rimuovere quegli ostacoli allo sviluppo che non siano sotto il diretto controllo delle imprese del settore (come carenze infrastrutturali e dei servizi alle imprese o vincoli istituzionali) potrebbe aiutare il tessuto produttivo più efficiente e dinamico, ma avrebbe comunque scarsa efficacia rispetto alle imprese più deboli.

La seconda minaccia che viene dalle attuali tendenze del mercato mondiale è data dalle politiche di differenziazione basate sulle nuove tecnologie intraprese con forza dai grandi marchi internazionali. Cibi “high-tech” (di tipo funzionale, con attributi terapeutici e con nuovi servizi incorporati9), presentati al consumatore con le efficacissime tecniche di comunicazione che hanno da sempre sostenuto i grandi marchi, possono in breve tempo coprire tutti i segmenti del mercato occupando anche le nicchie di mercato dove attualmente si collocano i prodotti tipici. La maggiore resistenza a tale minaccia proviene indubbiamente dalla resilienza dei modelli di consumo alimentare di tipo tradizionale, mentre i maggiori rischi di esposizione provengono dal ritardi tecnologici del nostro tessuto produttivo. L’intervento pubblico in tale campo dovrebbe mirare a rimuovere proprio tale elemento di debolezza, promuovendo la ricerca e l’innovazione sia per far sì che anche le imprese italiane possano utilizzare le nuove tecnologie e sviluppare nuovi prodotti, ma soprattutto per stimolare innovazioni di tipo incrementale che riguardano i prodotti tradizionali, come l’arricchimento di questi con servizi aggiunti che ne aumentino il valore per il consumatore senza snaturarne i caratteri di tipicità (un esempio paradigmatico è quello dei servizi informativi per fini di garanzia della sicurezza e della qualità del prodotto).

La prima opportunità per l’agroalimentare italiano proviene dai nuovi spazi di mercato per i prodotti tradizionali che si stanno aprendo con la crescita dei segmenti ricchi di consumo nelle economie emergenti. Il fattore che maggiormente può aiutare a cogliere tale opportunità è sicuramente l’elevato capitale di immagine che il made in Italy ancora possiede nel mondo. Tuttavia alcune carenze organizzative e infrastrutturali di cui soffre il settore potrebbero ostacolare l’entrata sui nuovi mercati. Ad esempio la ridotta dimensione delle imprese che offrono prodotti tradizionali richiede uno sforzo di azione congiunta per accedere a quei servizi informativi e di marketing dal costo troppo elevato per le singole aziende. La carenza gestionale e organizzativa delle imprese ma anche le carenze infrastrutturali e di offerta di servizi per una efficiente gestione della distribuzione risultano in generale elementi di debolezza. In tale caso l’offerta di servizi di gestione e comunicazione da parte del settore pubblico e più in generale investimenti in infrastrutture, risultano interventi praticabili e d efficaci di aiuto alle imprese.

La rapida crescita di un settore della domanda interessato a prodotti sostenibili a livello sociale ed ambientale offre una seconda opportunità al sistema italiano. Lo sviluppo di marchi di sostenibilità sociale potrebbe aiutare le imprese italiane a competere in termini di differenziazione, superando così gli svantaggi di costo, e puntando non tanto sugli investimenti in marketing ed innovazione, ma sullo sviluppo di una responsabilità sociale dell’impresa (Gallino, 2005) ispirata da genuini principi di etica degli affari. L’adesione a progetti di interesse sociale e lo sviluppo di codici etici fa parte integrante ormai della politica di comunicazione e di immagine di molti grandi marchi, tuttavia ben poche volte alle dichiarazioni di intenti corrispondono politiche reali e garanzie di rispetto degli stessi. Gli stessi marchi di sostenibilità sociale proliferati in questi primi anni duemila implicano in effetti il rispetto di ben pochi impegni da parte delle imprese che ne fanno uso. Tuttavia la richiesta di nuovi attributi “etici” dei prodotti da parte dei consumatori rimane elevata. Un tessuto di piccole e medie imprese che operano su mercati locali, quale si presenta in parte l’agroalimentare italiano, potrebbe sviluppare un rapporto più diretto con i consumatori, tramite anche un settore del dettaglio compiacente e collaborativo, e utilizzare strumenti informali come la fiducia (Sodano, 2002, 2006a), accanto a quello formale della certificazione da parte di terzi, che meglio garantiscano i consumatori. A tal fine sono necessari non solo un livello di lealtà e correttezza elevati ma anche una capacità di coordinamento e di collaborazione interimpresa che potrebbe basarsi sulle esperienze relazionali del mondo della cooperazione e dei distretti industriali. Pesanti ostacoli all’affermazione di marchi di sostenibilità si pongono per le imprese meridionali dove la scarsa trasparenza nella conduzione degli affari, con i casi conclamati di vera illegalità nello sfruttamento delle risorse ambientali e del lavoro che ricorrentemente assurgono alla cronaca, minano alla base la credibilità e la reputazione delle imprese. Il ruolo del settore pubblico in tale ambito può essere importante. Il rafforzamento degli enti pubblici di garanzia e certificazione e la lotta all’economia illegale sono gli interventi principali, ma anche l’offerta di formazione e di servizi legali alle imprese sono esempi di politiche efficaci per promuovere i marchi di sostenibilità sociale.



Tavola 1 Le due principali minacce allo sviluppo dell’agroalimentare italiano

Minacce

Fattori di forza

(resistere alle minacce)

Fattori di debolezza

(perdita di tessuto produttivo)

Ruolo dell’intervento pubblico

Colonizzazione da parte di gruppi stranieri

Nessuno

Polverizzazione del tessuto produttivo e storica “debolezza” del capitalismo italiano

Interventi di politica industriale

Nuove tecnologie e riduzione degli spazi di mercato per i prodotti tradizionali

Resistenza del tessuto socio-culturale e attaccamento ai modelli alimentari tradizionali

Bassi investimenti in innovazione e ricerca

Investimenti in ricerca



Tavola 2 Le due principali opportunità per lo sviluppo dell’agroalimentare italiano

Opportunità

Fattori di forza

(cogliere le opportunità)

Fattori di debolezza

(perdere le opportunità)

Ruolo dell’intervento pubblico

Mercati emergenti e nuovi spazi per i prodotti tradizionali italiani

Elevato capitale di marca del “made in Italy”

Basso grado di ccordinamento degli operatori e carenze infrastrutturali e informative.

Offerta di servizi alle imprese e investimenti infrastrutturali.

Formazione.

Sviluppo di marchi di qualità, sostenibilità sociale, promozione di un’etica alimentare

Consumatori consapevoli.

Modelli organizzativi del centro-nord basati sulla collaborazione interimpresa e la trasparenza.

Perdita di potere di acquisto della fascia media.

Carenze istituzionali e scarsa trasparenza nel tessuto economico meridionale

Interventi “ordinari” di politica economica.

Lotta all’economia sommersa e criminale.

Potenziamento degli enti di certificazione pubblici.



Conclusioni

Il settore agroalimentare italiano si trova in una situazione per certi versi anomala rispetto alla attuale specializzazione produttiva internazionale. E’ possibile dividere molto grossolanamente i diversi sistemi agroalimentari in: 1) paesi ricchi, leader nella trasformazione e nella distribuzione, che perseguono politiche di outsourcing, spinta innovazione tecnologica e marketing globale; 2) paesi in rapido sviluppo tesi all’ammodernamento del proprio apparato produttivo col doppio obiettivo di maggiore autosufficienza alimentare e capacità di competizione con i grandi gruppi multinazionali; 3) paesi poveri, terra di conquista da parte dei sistemi ricchi per l’approvvigionamento di materia prima a basso costo e per la colonizzazione dei loro mercati interni da parte dei grandi marchi standardizzati della trasformazione e del dettaglio. Confrontando tali categorie con gli attuali tratti caratteristici del sistema agroalimentare italiano emerge che questo non rientra approssimativamente in alcuna di esse. Troppo debole per stare al passo con i paesi avanzati, troppo ricco (e si spera possa essere ancora così in futuro) per essere assimilato ai paesi poveri, troppo vecchio e “immobile” per assomigliare sia pur da lontano ai paesi emergenti.

La considerazione conclusiva che se ne può trarre è che rispetto a tale posizione peculiare l’Italia debba sforzarsi di trovare una strategia anch’essa peculiare per rimanere presente sul mercato agroalimentare globale.

Le prospettive di successo dell’agroalimentare italiano risiedono in due elementi:

Il primo elemento è la necessità a impegnarsi in un confronto competitivo principalmente con i sistemi più avanzati, nei confronti dei quali registra già una maggiore similitudine di comportamento ed una maggiore integrazione dei mercati.

Il secondo elemento è la necessità di trovare una quinta via rispetto alle strategie messe in atto dalle imprese nei sistemi avanzati e che nel paragrafo 2 sono state indicate come strategie di crescita per diversificazione conglomerale, strategie di globalizzazione, strategie di accrescimento del capitale di marca, e strategie di innovazione di tipo radicale.

Tale quinta via può risiedere in un progetto di sistema agroalimentare di qualità di carattere locale, come organizzazione e caratterizzazione produttiva, ma con una discreta forza di esportazione e penetrazione sui mercati esteri. La qualità va intesa come caratterizzazione di tradizione e tipicità, come sicurezza alimentare e come qualità sociale ed ambientale. Il carattere locale risiederebbe nella strutturazione e dimensione locale del ciclo produttivo e di formazione del valore aggiunto, nell’intento non tanto di attuare una sorta di preferenza protezionistica agli operatori italiani, ma di sperimentare cicli di produzione-distribuzione-consumo a basso impatto ambientale ed ad elevato valore sociale, inteso quest’ultimo come conservazione di stili alimentari che fanno parte del patrimonio culturale e del capitale sociale di un territorio ma anche come mantenimento di un tasso di partecipazione interno alle attività di produzione dei beni alimentari. Tale tasso di partecipazione interno serve non solo a salvaguardare la presenza stessa del settore agroalimentare nazionale e dell’indotto prodotto negli altri settori dell’economia, ma anche a mantenere un controllo locale sulle esternalità negative e positive prodotte dai cicli di produzione-consumo, in modo da utilizzare il valore delle esternalità positive per risarcire i danni di quelle negative. Tenuto conto della frammentazione del tessuto produttivo una tale forse utopistica caratterizzazione del settore agroalimentare dovrebbe fare leva su forme nuove di collaborazione inter-impresa dove la logica del profitto “a tutti i costi” lasci la strada ad una logica di ripartizione solidaristica dei guadagni e delle perdite del tipo di quella che in parte permea la filosofia dell’impresa cooperativa.

Va sottolineato che ciò che si propone non è un invito generico a “mangiare prodotti italiani” sulla spinta di un attaccamento emotivo alle proprie tradizioni, ma un invito a mangiare prodotti “locali” che: 1- rispondano ad elevati requisiti di qualità e sicurezza; 2- non abbiano avuto bisogno di onerosi (per la nostra atmosfera) trasporti e processi di condizionamento; 3- siano prodotti e distribuiti da aziende moderne ed efficienti che tuttavia non inseguono la riduzione estrema dei costi attraverso pratiche di sfruttamento del lavoro e delle risorse ambientali; 4- siano dotati di quell’ulteriore valore aggiunto che proviene dalla conservazione di gusti e atmosfere locali peculiari ancora estranee alla “coca-colarizzazzione” del gusto alimentare universale.

Lo sviluppo di marchi di tipicità e sostenibilità ambientale e sociale, nel quadro di una promozione che potremmo definire di una “etica alimentare”, è pertanto il principale obiettivo delle imprese italiane, per raggiungere il quale vi è bisogno di forme organizzative inter-impresa sia a livello orizzontale sia a livello verticale (e soprattutto tra dettaglio e industria alimentare) basate sulla fiducia e sulla collaborazione.

Un secondo obiettivo tuttavia deve essere perseguito con pari determinazione, quello del recupero del ritardo tecnologico che il paese ha cumulato negli scorsi anni. Nel bene e nel male le bio e le nano tecnologie modificheranno l’economia e le nostre vite nei prossimi anni. Perdere qualsiasi capacità di sviluppo di tali tecnologie è pericoloso non solo a livello economico ma anche a livello politico e sociale perché implicherebbe une dipendenza dai paesi più avanzati che lascerebbe il paese impotente nel monitorare l’impatto economico, sanitario ed ambientale di tali tecnologie. Un maggiore controllo delle stesse invece potrebbe portare a processi innovativi di utilità ambientale e sociale e contrastare l’uso esclusivamente “di rapina” portato avanti dai giganti multinazionali.

Infine va sottolineata l’importanza del ruolo del settore pubblico nell’accompagnare il processo di adattamento del settore agroalimentare italiano al nuovo scenario competitivo internazionale. Soprattutto tre tipi di intervento andrebbero attuati con forza e determinazione: investimenti in ricerca e formazione; investimenti in capitale sociale; investimenti in infrastrutture e facilitazioni logistiche e organizzative per le imprese.



Riferimenti bibliografici.


Anderson K., Martin W. (2005) Agricultural trade reform and the Doha development agenda, World Bank, working paper series 3607.

Bureau J., Jean S., Matthews A. (2006) The consequence of Agricultural trade liberalization for developing countries, paper presented at the Association of Agricultural Economists Conference, Gold Coast, Australia, August 12-18.

Bush L., Thiagarajan D., Bain C. (2005). Supermarket profile report. In: The relationship of third-party certification (TPC) to sanitary and phytosanitary (SPS) measures and the international agri-food trade. USAID.

Bush L., Thiagarajan D., Hatanaka M., Bain C., Flores L., Frahm M., (2005a). The relationship of third-party certification (TPC) to sanitary and phytosanitary (SPS) measures and the international agri-food trade: final report. USAID

Bush L., Thiagarajan D., Hatanaka M., Bain C., Flores L., Frahm M., (2005b) Internet profile report. In: The relationship of third-party certification (TPC) to sanitary and phytosanitary (SPS) measures and the international agri-food trade. USAID

Delbone M., De Graaff R., Brom F. (2007) An ethical toolkit for food companies: reflections on its use. Journal of Agricultural and Environmental Ethics 20: 99-118.

ETC Group (2004) Down to the farm: the impact of nano-scale technologies on food and agriculture. www.etcgroup.org.

ETC Group (2005) Oligopoly, Inc. 2005. Etc Comminiqué, issue 91, November December. www.etcgroup.org

Gallino L. (2005) L’impresa irresponsabile, Einaudi.

Hu Dinghuan, (2006) Impact of supermarket development on Agricultural sector and agrifood safety in China, paper presented at the Association of Agricultural Economists Conference, Gold Coast, Australia, August 12-18.

INEA (2005) L’agricoltura Italiana conta, Roma.

Krugman P. (1997), Un’ossessione pericolosa, il falso mito dell’economia globale, ETAS libri.

Panagariya A. (2005) Agricultural liberalization and the latest developed countries: six fallacies. The World Economy 28, 9, 1277-99.

Rampini F. (2006) L’impero di Cindia, Mondadori.

Sodano v. (2002). “Trust, Economic Performance and the Food System: can Trust lead up to unwanted results?”, in Paradoxes In Food Chains And Network (J.H. Trienekens and S:W.F. Omta editors), Wageningen Academic Publishers.

Sodano V. (2004) Strumenti di analisi per l’economia dei mercati agroalimentari. Edizioni Scientifiche Italiane.

Sodano V. (2006a). "A power-based approach to the analysis of the food system", in: International agri-food chains and networks, edited by J. Bijman, S.W.F. Omta, J.H. Trienekens, J.H.M. Wijnands and E.F.M. Wubben, wageningen Academic Publiscers, ISBN 9076998957, pp.199-216.

Sodano V. (2006b) (a cura di) Cambiamenti istituzionali e adattamento delle imprese: il caso del pomodoro da industria. Edizioni Scientifiche Italiane.ISBN 88-495-1312-7

Sodano V. (2006c) “Food safety and social capital: a double side connection”, paper presented at the discussion forum “System dynamics and food network research”, Queensland, Australia, August 17.

Von Tongeren F., van Meijl H., (2006) Multilateral trade liberalization and developing countries: a north-south perspective on agriculture and processing sectors. Paper presented at the Association of Agricultural Economists Conference, Gold Coast, Australia, August 12-18.

Weyerbrock S., Xia T. (2000), Technical trade barriers in US/Europe agricultural trade, Agribusiness, vol. 16 n.2 pp.235-251.

1Professore associato di Economia dei Mercati Agro-alimentari dell’Università Federico II di Napoli e collaboratore del Centro per la Formazione in Economia e Politica dello Sviluppo Rurale di Portici.


2 Il lavoro ha usufruito di un contributo del MIPAF, decreto MIPAF n 7327 del 22/12/05, nell’ambito della ricerca “Competitività dell’ortofrutticultura italiana”.


3 Come notato da molti studiosi, la quota relativa del valore degli scambi commerciali internazionali sul prodotto interno dei diversi paesi attualmente non è particolarmente elevata rispetto al passato. Il commercio internazionale negli anni novanta non è stato molto più grande, come quota del prodotto mondiale, rispetto al secolo precedente. Ad esempio negli USA nel 1993 la spesa per importazioni era pari all’11 per cento del reddito lordo interno, contro un valore dell’8% nel 1890 (Krugman, 1997, pag. 157).

4 Le misure di sostegno interno sono classificate in diversi tipi (scatole blu, gialle e verdi) a secondo del grado di accettabilità dei possibili effetti sul commercio. In una prima fase gli strumenti economicamente neutrali (retirement grants, aiuti in occasione di disastri naturali e aiuti ambientali) furono classificati nella scatola verde, e gli altri tipi di sostegno con un impatto sul mercato nella scatola gialla. Relativamente agli strumenti della scatola gialla i paesi membri si impegnavano a ridurli gradualmente fino ad eliminarli nell’arco di sei anni. Una tale classificazione obbligava l’UE a eliminare completamente il regime di aiuti diretti sui quali si fonda l’intera politica agricola comunitaria. Al fine di difendere tale politica l’UE è riuscita a ottenere una parziale deroga alle regole definite attraverso l’introduzione della scatola blu. Questa definisce alcuni tipi di aiuti diretti (in genere tali aiuti sono quelli pagati ai produttori soggetti a vincoli e limitazioni di produzione) non soggetti a limitazioni.

5 Una conseguenza generale degli accordi che riguardano le barriere non tariffarie è l’impossibilità quando necessario di definire politiche ambientali e sociali adeguate alla specificità del paese.

6 La regolamentazione in tema di salute e ambiente si traduce spesso in vincoli alle importazioni, sottoforma di richiesta di specifici standard di prodotto, che vengono interpretati come barriere tecniche (non tariffarie) al commercio. Per una stima dell’effetto delle barriere tecniche sul commercio agroalimentare tra USA e EU si veda Weyerbrock, Xia, 2000. La recente legge europea in tema di sicurezza degli alimenti contiene alcuni articoli, come quello che introduce la tracciabilità (art.15, capitolo I, regolamento europeo 178/2002), obbligatoria per tutti i prodotti alimentari, che potranno ricevere critiche da parte di quei paesi che vedranno ostacolate le proprie esportazioni verso l’UE e che interpretano tali norme come barriere non tariffarie.

7 In un network si definisce hub un nodo con un numero di connessioni estremamente elevato.

8 L’Unione Europea con 25 stati membri ha preso avvio il primo maggio 2004 con l’ingresso dei seguenti Stati: Rep. Ceca, Lettonia, Estonia, Cipro, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, Slovenia, Rep. Slovacca.

9 Esempi di tali servizi sono: maggiore conservabilità, riduzione dei tempi di preparazione, imballaggi che permettono facilitazioni nel trasporto e nello stoccaggio, sevizi informativi sofisticati quali sensori legati ai sistemi di tracciabilità e di garanzia della qualità, e così via.

31