di Franco Ionta1
Premessa
Alexander HAMILTON, politico statunitense e redattore della Costituzione americana profeticamente scriveva: “ La distruzione violenta di vite e di beni che è insita nella guerra, il perpetuo stato di allarme e di tensione che è determinato da un pericolo incombente, farà si che perfino le nazioni a cui sta più a cuore la libertà, ricorreranno, per raggiungere sicurezza e distensione ad istituti che potrebbero compromettere i loro diritti civili e politici. A lungo andare, pur di ottenere una certa sicurezza, esse diventeranno propense a correre il rischio di divenire meno libere”.
Ovviamente HAMILTON si riferiva ai fatti di guerra nell’accezione tradizionale del termine, ma la sua osservazione è perfettamente calzante anche nel caso in cui la paura/insicurezza sia dovuta a fatti di terrorismo ed in particolare a quelli devastanti originati dall’attacco alle TWIN TOWERS del 2001.
Il problema centrale del contrasto al terrorismo infatti e in specie di quello di matrice internazionale è di coniugare l’uso legittimo della “forza” sia quale attività preventivo/informativa che come azione penale/repressiva, con le libertà individuali protette dai principi costituzionali.
L’alveo nel quale muoversi e nel quale si è mosso il legislatore italiano è quello di adeguare l’intervento alle norme costituzionali non cedendo alla tentazione di una normazione suggerita o suggestionata dalla emotività o dalla emergenza ( così come pare avvenuto in altri paesi occidentali), ma mantenendo le disposizioni calibrate al rispetto delle garanzie personali anche di un giusto processo.
Impossibile (e forse sterile) entrare nel dibattito filosofico/politico/religioso, circa la “giustezza” delle lotte di liberazione dei popoli oppressi, del tirannicidio o dell’atto rivoluzionario e violento, dibattito che attraversa da secoli la storia del pensiero anche della Chiesa: ciò che appare opportuno sottolineare e condividere è la “processualizzazione” di ogni atto di violenza anche di quello estremo del cd. iperterrorismo ( i concetti giudiziari e le stesse parole di uso comune risultano a volte inadeguati a ricomprendere la portata di recenti attentati) e quindi la riconduzione ad un sistema di regole garantite sia della fase raccolta/acquisizione della prova del delitto che della emanazione del verdetto. Il dibattito in corso negli Stati Uniti d’America fornisce la dimostrazione “a contrario di come la deriva emergenzialista, ponendo in discussione taluni concetti cardine di quel sistema giudiziario e rendendo più incerto e insicuro il rapporto Stato/cittadino, conduca ad una possibile implosione del complesso meccanismo delle garanzie costituzionali, presidio della democrazia.
Le crisi internazionali ed in particolare quella afgana e irachena ed anche quella libanese hanno necessitato un affinamento delle procedure giudiziarie tanto che a distanza di sei anni dall’attentato alle TWIN TOWERS e, per quanto concerne l’Italia, di quattro anni dall’attacco a Nassiriyah, può dirsi consolidato un diritto processuale di “guerra” costruito sui precetti del codice di rito adattato agli incombenti da affrontare.
Giurisdizione e competenza
Riferimenti normativi indefettibili sono rappresentati dagli artt. 7,8,9 e 10 del Codice penale disposizioni nelle quali si individuano secondo le tipologie dei delitti e della nazionalità dei soggetti incriminabili, le condizioni di procedibilità in Italia. L’esame della normativa evidenzia la categoria dei reati contro la personalità dello Stato per i quali la giurisdizione italiana è incondizionata (art. 7), quella dei delitti comunque “politici” che bisognano della richiesta del Governo italiano e nella specie del Ministero della Giustizia (art. 8), quella dei delitti comuni commessi sia da cittadini che da stranieri e che sono condizionati da richiesta del Ministro o dalla istanza della parte o dalla presenza nel territorio dello Stato dell’autore dell’illecito. La recente legislazione (v. in particolare la legge 219/2003) ha attribuito la competenza per i delitti in danno di militari italiani e assimilati alla Autorità Giudiziaria ordinaria di Roma sotto la condizione dell’art. 16 del Ministro della Giustizia previo parere del Ministro della Difesa. Evidente in questo ultimo caso, stante la specificità della situazione, la opportuna partecipazione al processo formativo della volontà di perseguire il delitto in Italia del Dicastero responsabile della gestione militare.
Intanto, proprio il disposto dell’art. 16 dovrebbe costituire un sufficiente orientamento, dettato dalle scelte parlamentari, per ritenere perseguibili i delitti contro lo Stato e/o cittadini italiani(militari e non) in missione in Afghanistan, Iraq e Libano come delitti ordinari e quindi non ricomprensibili in fatti ininfluenti rispetto alla legislazione penale italiana giacché esplicazione del cd. diritto di resistenza a fronte di occupazione militare del territorio nazionale. Del resto la definizione dell’intervento militare italiano nelle zone è comunque determinato da risoluzioni di Organismi internazionali (NATO e ONU) cui il nostro Stato ha obbligo giuridico di aderire e che ne tracciano le caratteristiche proprie non della guerra bensì dell’ottenimento o del mantenimento della pace. Per tal verso e in sintesi può concludersi perché tali fatti illeciti siano da inquadrare in delitti commessi per finalità di terrorismo intendendosi per tali l’azione violenta ed armata condotta sia contro cittadini inermi che contro connazionali in armi. E ciò tanto più vale nei casi in cui si compiano delitti contro la libertà delle persone allo scopo di influire sulle scelte di politica estera del Governo.
Le fattispecie più di frequente utilizzate sono state quelle dell’art. 422 c.p. e quella dell’art. 289 bis c.p. sovente accompagnata da quella dell’art. 289 c.p. che vede proprio l’Autorità di Governo quale persona offesa dal delitto. Ovvi il principio e la considerazione secondo i quali il Potere Politico non possa e non debba essere “costretto” da contingenze volute dalle organizzazioni che praticano all’estero e a maggior ragione in territorio nazionale, attività “terroristiche” a modificare le proprie autonome determinazioni.
Ma il ricorso alla ipotesi dell’art. 289 bis contiene una ulteriore conseguenza affatto peculiare dal momento che essa rende inapplicabili le disposizioni relative al sequestro di persona effettuato per scopi estorsivi: in tal caso infatti la complessa procedura che prevede il cd. blocco dei beni della famiglia del sequestrato e la punibilità di taluni comportamenti volti a far ottenere ai sequestratori il profitto economico del commesso reato e che manifesta una precisa scelta del legislatore tesa a scoraggiare il fenomeno delinquenziale, non può, correttamente, trovare applicazione, dovendo lo Stato poter valutare anche forme articolate di trattativa onde ottenere la liberazione degli ostaggi non potendo sottostare alle comuni esigenze di contrasto alla criminalità più o meno organizzata. Sovrane infatti appaiono le scelte dell’Autorità di Governo in queste contingenze essendo le stesse, legittimamente, discrezionali e derivanti dalla complessiva valutazione di agibilità in considerazione delle emergenze anche internazionali e della salvaguardia della sicurezza dello Stato.
L’utilizzo della Polizia Giudiziaria all’estero è fortemente ridimensionato specialmente quando si tratti di operare in contesti ed in paesi con i quali non sono conclusi accordi di cooperazione. I meccanismi di raccordo con autorità locali risultano infatti piuttosto faticosi se non impossibili e comunque incompatibili con le ineludibili ragioni di immediatezza.
E’ stato pertanto necessario far ricorso a forme di intervento sostanziali usufruendo della rete dell’Intelligence italiana che nel teatro riesce a muoversi con maggiore disinvoltura previa copertura, ove occorra, di quella dei Servizi Collegati. Si tratta di un evidente ma ragionevole compromesso che porta le strutture informative a svolgere compiti para-giudiziari ( in particolare nell’acquisizione di corpi di reato e non solo) accettando il rapporto con l’Autorità giudiziaria in qualche modo anche di controllo e di messa a disposizione di quanto acquisito. La presenza in territorio straniero di elementi della polizia giudiziaria ovvero la consegna a questi, al momento dell’ingresso in territorio nazionale, del reperto, può consentire un proficuo utilizzo processuale del dato.
Ferme restando dunque le competenze proprie dell’organizzazione informativa essa ha contribuito spesso in maniera decisiva alla ricostruzione anche di dettaglio delle varie situazioni criminose e alla conduzione di operazioni giudiziarie; la funzione propria della struttura inquirente alle cui dipendenze opera la Polizia Giudiziaria nell’alveo di un procedimento penale per il delitto permanente, fa infatti ricondurre a quest’ultima la conduzione della investigazione anche durante le fasi, spesso prolungate, del sequestro, conduzione che per non essere virtuale ha dovuto “piegare” l’Intelligence ad un lavoro di cooperazione che appare comunque consono ed omogeneo a quel principio generale di collaborazione tra istituzioni dello Stato che anche sostanzia la legge istitutiva dei Servizi.
Del resto traccia di una sia pur embrionale forma di subordinazione, normalmente non prevista, si ha nella disposizione dell’art.4 L. 31/7/2005 n. 155 laddove per la effettuazione di intercettazioni preventive i Direttori dei Servizi d’Informazione e Sicurezza, operando su delega del Presidente del Consiglio dei Ministri, hanno necessità/obbligo di rivolgersi per ottenerne l’eventuale autorizzazione, al Procuratore Generale della Repubblica territorialmente competente in relazione ai luoghi ove le stesse devono essere espletate.
Un protocollo di gestione dei rapporti tra Autorità giudiziaria e strutture governative e del Governo italiano tout court non può essere steso giacchè i momenti di contatto non sono prevedibili e sono dovuti alle esigenze contingenti e tuttavia delle reciproche delimitazioni appaiono proponibili sempre alla stregua del sottinteso spirito di collaborazione istituzionale. Non c’è dubbio che la separatezza del giudiziario deve cedere per qualche linea così come per qualche linea deve tollerare la autonomia discrezionale governativa. Il “sacrificio” di entrambi è più che giustificato dalle esigenze superiori di salvaguardia della integrità e della sicurezza nazionali da un lato e delle convenzioni internazionali accettate nel contesto della comune lotta rispetto alla minaccia terroristica.
La saggezza e l’equilibrio istituzionali devono fare il resto anche a tutela delle reciproche indipendenze. Le occasioni di frizione non sono mancate ma esse possono essere (e sono state) risolte grazie alle intese e alle definizioni dei rispettivi ruoli.
Per tutti valga il caso della vettura Toyota coinvolta il 4 marzo 2005 nell’omicidio del dott. CALIPARI ed appresa dall’Autorità militare USA in Iraq; vettura che indubbiamente costituiva corpo del reato ai sensi del codice processuale penale italiano e che tuttavia era oggetto delle investigazioni (peraltro affidate ad una Commissione congiunta italo-americana) sulla valutazione dell’episodio. Se la procedura militare USA infatti, con l’accordo tra i due paesi, consentiva o imponeva accertamenti di carattere scientifico sul veicolo questi non dovevano influire negativamente sugli atti procedimentali da compiersi nella investigazione giudiziaria. L’ambiente militare poco accetta infatti il concetto di primazia dell’intervento giudiziario e non conosce il concetto, squisitamente processuale, dell’accertamento irripetibile garantito. La soluzione dell’apparente irrisolvibile rovello, una volta inaccettata la possibilità di operazioni congiunte amministrative e giudiziarie, si è ottenuta attraverso un “paletto” posto dall’Autorità giudiziaria italiana, come tale veicolato verso l’amministrazione USA dal Governo nazionale, di necessità della salvaguardia dell’integrità del reperto ai fini della effettuazione dell’azione dei consulenti giudiziari che avrebbero svolto il loro incarico all’esito dei lavori della Commissione paritetica ma ottenendo una condizione immutata della cosa.
Altra questione è invece quella della natura giuridica della Commissione d’inchiesta militare USA e cioè se essa possa essere considerata esplicazione della riserva di giurisdizione di cui alla risoluzione n. 1546 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite poiché tale natura va commisurata alla strutturazione complessiva del sistema giudiziario USA connotato da caratteristiche del tutto disomogenee rispetto al sistema italiano a partire dal regime di obbligatorietà o discrezionalità dell’esercizio dell’azione penale. Motivo quest’ultimo sovente foriero di incomprensione nei rapporti italo-statunitensi.
Così come difficile è il ricorso alle procedure della commissione rogatoria per il compimento di atti di indagine in territori in cui sono assenti forme di governo stabilizzate ovvero in paesi privi di trattati di assistenza e di cooperazione giudiziaria e verso i quali l’unico canale percorribile è quello della cd. cortesia internazionale, il tutto complicato dal fatto che spesso i soggetti destinatari del provvedimento giudiziario italiano si trovano nella disponibilità di fatto dell’Autorità militare occidentale che presidia il territorio e in quella giuridica dello Stato di appartenenza e che avrebbe giurisdizione e competenza sui propri cittadini anche se autori sul territorio nazionale di crimini in danno di stranieri militari o civili che siano. In queste situazioni lo strumento della doppia richiesta indirizzata ai due Governi interessati e lo svolgimento di atti con l’utilizzo della videoconferenza ha fornito proficui anche se parziali risultati.
La giurisdizionalizzazione del terrorismo
Dopo le prime esperienze e le prime risposte che si sono mosse sul terreno squisitamente della reazione militare il terrorismo deve essere contrastato giurisdizionalizzandolo. Anche nei paesi nei quali si sono adottate legislazioni dettate dalla emergenza (e nella comprensibile logica di adattamento giuridico alle nuove sfide proposte dall’integralismo combattente) si stanno riconsiderando una serie di questioni dal momento che le ragioni di sicurezza nazionale per poter aver diritto di permanenza nell’ordinamento complessivo hanno necessità di non compromettere le consolidate acquisizioni in termini di libertà individuali e di non ledere principi di salvaguardia del giusto processo a cominciare dallo status delle persone catturate in operazioni militari e come tali in prima battuta nella disponibilità di ambienti amministrativo-militari. Le recenti pronunce della Corte Suprema degli Stati Uniti vanno, giustamente, in questa direzione: la definizione di persone sottoposte ad indagini per crimini comunque processabili dinanzi alla Giustizia ordinaria è il presupposto da cui partire per rendere giudiziario il fenomeno terroristico e giudiziaria la risposta a comportamenti individuali e di gruppo di matrice terroristica. Ed egualmente la obbligatorietà di un processo che valga sia per i cittadini che per gli stranieri dinanzi ad un Tribunale precostituito e che adotti “normali” procedure per l’acquisizione e la valutazione della prova, nella sua pubblicità e trasparenza rappresenta la migliore garanzia non solo per i soggetti incriminati ma fornisce idoneo deterrente per l’emulazione e fa venire meno uno dei possibili motivi di propaganda e di reclutamento antioccidentali.
Parallelamente, va osservato che la pratica più o meno estesa delle renditions oltre ad arrecare un vulnus alla sovranità nazionale del paese ignaro nel quale esse vengano attuate (a ben guardare la sovranità viene ad essere compromessa anche se vi fosse l’accordo o l’acquiescenza del paese d’intervento) legittima o giustifica la critica verso strutture governative democratiche e così i comportamenti in carceri speciali verso le persone ivi ristrette fomenta l’odio già radicato per via delle occupazioni militari. Nell’uno e nell’altro caso è sempre la via giudiziaria a poter dare adeguata risposta: se si tratta di espulsioni pilotate esistono strumenti giuridici utilizzabili per poterle ottenere iniziando dalle normali procedure di estradizione verso i paesi di appartenenza e presso i quali fossero istaurati procedimenti penali ovvero facendo ricorso ai divieti di soggiorno o ai rimpatri forzati; quanto alle eventuali forme di pressione e/o di tortura in danno di soggetti detenuti, la individuazione dei responsabili e la loro sottoposizione a processi penali da ennesima prova della saldezza delle democrazie rappresentative capaci di reprimere e punire comportamenti deviati.
Da ultimo, la celebrazione di processi nei confronti di chi si è reso responsabile di crimini contro intere popolazioni (SADDAM Hussein) e di delitti efferati anche se ideologicamente supportati (Osama BIN LADEN) ancora una volta specialmente se tenuti dinanzi a Corte internazionali (ma la considerazione vale anche nel caso di Corti dei paesi di cittadinanza degli imputati o delle vittime purchè dotate di sufficiente indipendenza per poter essere definite imparziali) da’ la dimostrazione che al crimine lo Stato democratico reagisce con l’apparato giudiziario deputato in via ordinaria al suo contrasto.
1 Capo del pool antiterrorismo della Procura della Repubblica di Roma