LA CONSULENZA FILOSOFICA AZIENDALE: UNA FORMA PRATICA PER AFFRONTARE IL RAPPORTO TRA ETICA ED ECONOMIA

di Guido Traversa*



1. Etica e scienza



Molte questioni etiche che si accompagnano alla ricerca scientifica e alle sue applicazioni appaiono non di rado come qualcosa di esterno alla scienza stessa, alla sua storia, alla storia dei cambiamenti dei paradigmi esplicativi assunti da ogni singola disciplina scientifica. Esse appaiono come “esterne” proprio a causa dell’apparente “atomicità”, “semplicità” delle nozioni etiche – libertà, responsabilità, rispetto, legge, persona – che vengono usate nel definire le norme ideali a cui la scienza in generale, e ciascuna disciplina in un modo particolare, dovrebbe attenersi nel proprio operato.

Secondo questa posizione i problemi etici inerenti alla scienza sono una dimensione che vi si aggiunge dall’esterno, in un secondo momento: nella successiva riflessione, basata su principi etici e valori, sulle conseguenze pratiche che una determinata scienza ha sulla realtà. A mio modo di vedere, al contrario, essi sono interni al determinato paradigma conoscitivo su cui si fonda quella scienza. Infatti, ogni paradigma scientifico ha: 1) una sua logica, ossia un determinato apparato di categorie, che porta necessariamente a vedere la realtà del proprio oggetto in 2) una determinata concezione ontologica, dalla quale consegue 3) un particolare approccio di comportamento etico nei confronti dell’oggetto. È quindi necessario comprendere il nesso di determinazione reciproca tra la Logica, l’Ontologia e l’Etica.

Una simile analisi filosofica dell’apparato logico ed etico di ciascun paradigma di spiegazione scientifico consentirebbe non solo di avere già a livello formativo-universitario la consapevolezza della complessità del tessuto della disciplina scientifica che si viene apprendendo, ma di poter porre costantemente la questione del “limite” della ricerca e della concreta prassi scientifica: ci si renderebbe sempre più familiari non solo alla dimensione etica in generale, ma si acquisirebbe sempre più l’habitus del valutare, di volta in volta, in dettaglio la scienza che si viene sviluppando.

Adottando questo approccio molto della identità epistemologica di un simile lavoro si giocherà sul legame tra consapevolezza del limite ed esame del dettaglio. E tutto ciò, al fine primario di non relegare la responsabilità etica a qualcosa di mai veramente presente, di sempre spostabile nel futuro, ma di farne esperienza nella attuale molteplicità non omogenea dei dettagli, accidenti, che costituiscono la vita concreta della scienza e rispetto ai quali si viene chiamati ad esercitare l’agire responsabile in ogni momento. Così, forse, la discussione – e i conflitti che spesso ne derivano – sul “limite”, sulla “scelta”, sulla distinzione tra il lecito e l’illecito nella scienza in generale e in ciascuna scienza in particolare, risulterà più oggettiva in quanto determinata anche dall’oggetto di ciascuna scienza1.



Hans Jonas scriveva:

la scienza integrale dell’ambiente non esiste ancora. Le scienze oggettive attinenti a quest’ambito (della natura e della economia) devono per lo meno estrapolare dalla rete delle causalità le opzioni pratiche, su cui si possa impostare un esame etico del dettaglio e questo processo è solo agli inizi. Non possiamo ancora sostituire il telescopio con la lente d’ingrandimento. Nel frattempo, finché non migliorano le premesse cognitive perché ciò si attui, il rispetto e la prudenza di cui si è parlato nel Principio responsabilità e la coscienza del pericolo devono trattenerci nel senso più generale da una rovinosa leggerezza e far crescere in noi uno spirito di nuova moderazione”.

(Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, trad. it., Einaudi, Torino, 1997, p.5)



Dopo aver affermato che l’etica, quale insieme determinato di comportamenti, è intrinseca alla scienza in generale e in modo particolare a ciascun paradigma scientifico di spiegazione, è necessario sottolineare che tale assunto non conduce ad una autoreferenzialità della scienza, come a dire: dato che l’etica è intrinseca alla scienza, questa stessa si autolegittima, dichiarandosi esente dal doversi misurare con problemi etici distinti dal suo stesso operare. Al contrario, dall’affermazione di quel rapporto deriva che ciascun modello di spiegazione di un determinato “oggetto” non può non tener conto sia degli altri modelli sia, e ancor più, dell’“etica molteplice” della società civile. La necessità della non autoreferenzialità della scienza appare in modo netto quando i conflitti e i rischi divengono oggetto di scelte non solo scientifiche (quindi interne alla scienza), ma che fanno sentire una forma di responsabilità “allargata” nei confronti di tutta la realtà, non solo di quella scientifica.







2. La consulenza filosofica



Una nuova “applicazione “ della filosofia, la cosiddetta consulenza filosofica, sulla cui identità disciplinare è possibile ormai trovare un’ampia bibliografia, siti in internet e numerosi Master universitari 2 - può essere molto utile per mettere in pratica e per sperimentare questo lavoro epistemologico ed etico relativo ai rapporti tra scienza ed etica in generale, e in particolare a quelli tra etica ed economia nell’ambito del lavoro nell’impresa.

Consulenza filosofica, filosofia pratica, ontologia applicata, tante potrebbero essere le denominazioni per la filosofia come particolare forma di comprensione delle condizioni individuali, di gruppo o collettive che vissute con disagio più o meno forte, o come qualcosa di cui sfugge la forma precisa, generano dubbio, mostrano una mancanza di coerenza e fanno sorgere perciò, in chi le vive, un bisogno, inappagato, di compiutezza.

Ma al di là delle formule, la filosofia – nelle sue tante diverse forme: le filosofie – è un particolare modo del sapere e del capire: essa, in genere, cerca di mantenere legate tra loro, senza confonderle, le diverse dimensioni a cui si ricorre per comprendere qualcosa:

Insomma, pur senza dare alla filosofia una supremazia sulle altre forme di sapere e di azione, bisogna riconoscere che, quando essa funziona, tiene insieme dimensioni che nelle altre scienze di solito vengono separate reciprocamente.

Tutte queste riflessioni teoriche generali mi hanno portato ad elaborare un progetto di consulenza filosofica aziendale che di seguito presento.



3. Il progetto di consulenza filosofica aziendale



Schema per un progetto di Consulenza filosofica relativa alla gestione del disagio e dei conflitti nell’ambito delle dinamiche del lavoro aziendale3



Si tratta di un progetto che intende capire le cause (passato), l’identità essenziale (presente), e le propensioni (futuro possibile), di una determinata situazione “lavorativa” che genera disagio e conflitto nella prospettiva di indicare le possibili strategie per risolvere tale “situazione” e di realizzare un miglioramento delle relazioni umane potenziando gli aspetti etici del rapporto di sé con sé, di sé con gli altri lavoratori, di sé con l’azienda nella sua interezza, di sé con la società.

Tutto ciò, tenendo presente che un simile obbiettivo organico consente, inoltre, di abbassare i costi per il personale sostenuti dall’azienda.



Momenti principali attraverso i quali si verrà sviluppando il progetto di consulenza filosofica:



  1. Realizzazione di un “quadro ideale” a cui l’azienda nella sua interezza dovrebbe giungere. Tale “quadro” non deve essere elaborato solo alla luce della situazione di “disagio e conflitto”, ma tenendo ben presente tutte le altre dimensioni costitutive dell’azienda. In modo che il lavoro stesso di comprensione e di azione nei confronti della situazione di “difficoltà” non perda di vista sia il contesto generale dato, sia il quadro ideale a cui si dovrebbe poter pervenire.

  2. Realizzazione di uno studio affidato ad uno “storico del lavoro” che ricostruisca sia la storia particolare - relativa all’azienda specifica – che ha portato alla situazione di “disagio e conflitto” (d’ora in poi S.D.e C.), sia una ricognizione su territorio nazionale ed internazionale volta ad individuare tutte le situazioni simili date nella storia al fine di offrirne uno studio comparato volto ad individuare le possibili soluzioni già tentate nel passato.

  3. Realizzazione di tre Tabelle per la raccolta dei dati su cui impostare nel dettaglio la soluzione della S.D. e C.:

  1. Realizzazione di questionari anonimi da sottoporre ai lavoratori del settore in questione (S. D. e C.) per arricchire e precisare la Tabella delle “propensioni”. Tali questionari saranno formulati e poi interpretati anche da psicologi e psicoterapeuti, per non tralasciare la dimensione strettamente personale del disagio e del conflitto che ciascun singolo individuo si trova a vivere in un modo specifico e non generico. Tale attenzione al particolare, alle singole persone, già di per sé componente etica fondamentale per l’intero progetto di consulenza filosofica, sarà determinante per accordare il cosiddetto “quadro ideale” alle concrete esigenze dei singoli. Naturalmente tale “accordo” potrà essere realizzato sempre solo in parte: velleitario sarebbe ritenere che le specifiche differenze tra le persone, determinate da così tanti fattori accidentali, potrebbero essere accolte nella concreta dinamica lavorativa di una qualsiasi azienda e dal suo eventuale “quadro ideale”. Ma la formulazione e l’interpretazione dei questionari e il loro confronto con la Tabella delle “propensioni” potrà realizzare un obbiettivo molto importante: quello di individuare diverse sotto classi del più generale “quadro ideale” e diverse sotto classi dello schema generale che dovrebbe guidare al miglioramento e al cambiamento della S. D. e C.: le “sotto classi” indicheranno le principali aree problematiche che sono emerse “dal basso”, cioè dai dati raccolti attraverso i questionari. Si potrà essere certi, così facendo, che si verrà incontro alle principali tipologie delle esigenze, dei disagi, dei conflitti, vissuti da ciascun singolo lavoratore. Tali tipologie, costituiranno, pertanto, uno dei momenti centrali per la elaborazione e realizzazione delle strategie per la soluzione definitiva della S. D. e C.

  2. Realizzazione alla luce di tutto il lavoro svolto, non solo del piano dettagliato per la soluzione della S. D. e C., ma anche di una “Carta Etica” da assumere quale “codice etico” interno all’azienda per prevenire situazioni simile a quella affrontata che potrebbero presentarsi in futuro in altri settori e con altre caratteristiche.

L’etica e la gestione del disagio e del conflitto nell’ambiente di lavoro.

Guido Traversa4



4.1. L’esame del “dettaglio” nell’etica della scienza5.


Una delle definizioni a cui spesso ci si riferisce per dire che cosa è la “bioetica” è quella offerta dalla Encyclopedia of Bioethics 6 : <<lo studio sistematico della condotta umana nell’ambito della salute, quando tale condotta è esaminata alla luce di valori e principi etici>>.

Diversi sono i termini che meriterebbero un’analisi specifica ed una corrispondente definizione: a) sistematico; b) condotta; c) salute; d) valori; e) principi etici.

Anche se, forse, è esagerato chiedere ad una definizione qualcosa di più di una affermazione generale, ed è anche apparentemente inutile cercare ulteriori definizioni per le nozioni presentate, a meno di rischiare di cadere in un processo definitorio che proceda all’infinito, pure ci si incomincia a rendere conto della necessità di una maggiore consapevolezza del significato di alcuni termini, che appaiono troppo spesso come se fossero “atomici”, “semplici”, ed invece non lo sono, così come quelli che abbiamo prima elencato. Anzi, possiamo dire di più: molte questioni etiche che si accompagnano alla ricerca scientifica e alle sue applicazioni appaiono non di rado come qualcosa di esterno alla scienza stessa, alla sua storia, alla storia dei cambiamenti dei paradigmi esplicativi assunti da ogni singola disciplina scientifica; ed appaiono come “esterne” proprio a causa dell’apparente “atomicità”, “semplicità” delle nozioni etiche – libertà, responsabilità, rispetto, legge, persona – che vengono usate nel definire le norme ideali a cui la scienza in generale, e ciascuna disciplina in un modo particolare, dovrebbe attenersi nel proprio operato.

Qui parto dal presupposto che i problemi etici inerenti alla scienza non sono una dimensione che vi si aggiunge dall’esterno, in un secondo momento: nella successiva riflessione, basata su principi etici e valori, sulle conseguenze pratiche che una determinata scienza ha sulla realtà; al contrario, essi sono interni al determinato paradigma conoscitivo su cui si fonda quella scienza.

Stabiliamo, pertanto, alcuni presupposti metodologici:


a) La Bioetica, se è – o potrà diventare – una disciplina con propri fondamenti epistemologici e categoriali, deve – o dovrà – pertanto mostrare di avere caratteristiche che la differenziano dalle discipline della biologia e dell’etica, e che proprio per questo può analizzarne la struttura e indicarne le questioni fondamentali. Allo stesso modo la filosofia in quanto tale non è né la filosofia della scienza, né quella scienza determinata su cui di volta in volta la “filosofia della scienza” riflette.


b) Quindi i“problemi bioetici” presenti e sollevati tanto nella ricerca scientifica non sono, de facto, identici ai soli problemi etici che la scienza pone ed incontra empiricamente, cioè nella ricaduta pratica sull’ambiente naturale, sulla società o su un determinato individuo.


c) Al contrario, gli autentici “problemi bioetici” emergono, de jure, all’interno dello stesso paradigma esplicativo che si adotta nel procedere nella ricerca scientifica, nella elaborazione della spiegazione di un determinato fenomeno. Pertanto i “problemi bioetici” sono interni a ciascun paradigma scientifico: le questioni bioetiche si generano sulla base dei motivi epistemologici, conoscitivi e scientifici, interni alla scienza in quanto tale e ai suoi diversi paradigmi esplicativi.


A titolo esemplare: riferendoci alla medicina, che tra le varie scienze è una di quelle che più da vicino riguardano la bioetica, ne deriva che: optare per una determinata concezione della malattia7, per un determinato “linguaggio”8 medico, per una determinata teoria9 (in vista di una “ricerca”, di una “diagnosi” e di una “terapia”), optare per una determinata forma di classificazione10 delle sindromi, implica di per sé incontrare immediatamente e non post festum una determinata tipologia di questioni etiche.11

Una simile analisi filosofica dell’apparato logico ed etico di ciascun paradigma di spiegazione scientifico consentirebbe non solo di avere già a livello formativo-universitario la consapevolezza della complessità del tessuto della disciplina scientifica che si viene apprendendo, ma di poter porre costantemente la questione del “limite” della ricerca e della concreta prassi scientifica: ci si renderebbe sempre più familiari non solo alla dimensione etica in generale, ma si acquisirebbe sempre più l’habitus di valutare, di volta in volta, in dettaglio la scienza che si viene sviluppando.

Molto della identità epistemologica della Bioetica si giocherà sul legame tra consapevolezza del limite ed esame del dettaglio. E tutto ciò, infatti, al fine primario di non lasciare la responsabilità etica legata a qualcosa di mai veramente presente, di sempre spostabile nel futuro, ma di farne esperienza nella attuale molteplicità non omogenea dei molteplici dettagli, accidenti, che costituiscono la vita concreta della scienza e rispetto ai quali si viene chiamati ad esercitare l’agire responsabile in ogni momento. Così, forse, risulterà più oggettiva – in quanto determinata anche dall’oggetto di ciascuna scienza - la discussione, e i conflitti che spesso ne derivano, sul “limite”, sulla “scelta”, sulla distinzione tra il lecito e l’illecito nella scienza in generale e in ciascuna scienza in particolare.

Hans Jonas scriveva: “la scienza integrale dell’ambiente non esiste ancora. Le scienze oggettive attinenti a quest’ambito (della natura e della economia) devono per lo meno estrapolare dalla rete delle causalità le opzioni pratiche, su cui si possa impostare un esame etico del dettaglio e questo processo è solo agli inizi. Non possiamo ancora sostituire il telescopio con la lente d’ingrandimento. Nel frattempo, finché non migliorano le premesse cognitive perché ciò si attui, il rispetto e la prudenza di cui si è parlato nel Principio responsabilità e la coscienza del pericolo devono trattenerci nel senso più generale da una rovinosa leggerezza e far crescere in noi uno spirito di nuova moderazione”12.

Dopo aver affermato che l’etica, quale insieme determinato di comportamenti, è intrinseca alla scienza in generale e in modo particolare a ciascun paradigma scientifico di spiegazione e dopo aver mostrato come un simile assunto epistemologico possa trovare una concreta applicazione nell’ambito della medicina – in tal senso si è qui proposto un modello di analisi dei casi clinici – è necessario sottolineare che tale assunto non conduce ad una autoreferenzialità della scienza, come a dire: dato che l’etica è intrinseca alla scienza, questa stessa si autolegittima, dichiarandosi esente dal doversi misurare con problemi etici distinti dal suo stesso operare; al contrario ne deriva che ciascun modello di spiegazione di un determinato “oggetto” non può non tener conto sia degli altri modelli sia, e ancor più, dell’”etica molteplice” della società civile. La necessità della non autoreferenzialità della scienza appare in modo netto quando i conflitti e i rischi divengono oggetto di scelte non solo scientifiche che fanno sentire una forma di responsabilità “allargata”.



4.2. La possibilità di capire un conflitto reale

4.2.1 Innanzitutto due passi: uno da Jonas e l’altro da Levinas.


a) “Non possiamo ancora sostituire il telescopio con la lente d’ingrandimento. Nel frattempo, finché non migliorano le premesse cognitive perché ciò si attui, il rispetto e la prudenza di cui si è parlato nel Principio responsabilità e la coscienza del pericolo devono trattenerci nel senso più generale da una rovinosa leggerezza e far crescere in noi uno spirito di nuova moderazione” 13 .


b) “Sono noti gli ammirevoli passi di Ezechiele in cui la responsabilità dell’uomo si estende alle azioni del suo prossimo; fra gli uomini ciascuno risponde delle colpe altrui, ed anche del giusto che rischia di corrompersi noi rispondiamo”.

Perché l’eguaglianza possa fare il suo ingresso nel mondo, bisogna che gli esseri possano esigere da sé più di quanto non esigano dagli altri, che si sentano responsabili della sorte dell’umanità e che si pongano, in questo senso, in disparte rispetto all’umanità”14.





4.2.2 Poi, l’idea stessa di conflitto.


Antinomico è un conflitto tra pari; un forte e un debole non possono essere in rapporto antinomico. Pertanto due posizioni sono tra loro antinomiche se ciascuna ha forti argomenti a proprio sostegno. Se una tesi non solo ha forti ragioni, ma entra anche in un rapporto antinomico con un’altra tesi, ugualmente forte, allora il conflitto non nasce ad arbitrio, ma da un necessario dilemma interno all’esperienza.


      1. Un po’ meno di un metodo per stare presso l’antinomia.


Capire un conflitto (un’antinomia) vuol dire affrontarlo come qualcosa che per essere compreso deve essere percepito e giudicato a partire dall’opposizione che lo costituisce, dall’opposizione all’interno della quale si sviluppa.

Una possibile soluzione del conflitto dipende, perciò, dalla comprensione dell’opposizione e delle particolari caratteristiche di ciascuno degli elementi che formano la ‘contrapposizione’ stessa.

E se si arriva ad una ‘soluzione’, non si può, più, far finta di ignorare il carattere necessario dell’antinomia. Se si riesce a percepire insieme al conflitto stesso la forte distinzione tra una tesi e una antitesi, se si percepisce cioè l’antinomia intima alla questione, anche al momento di giudicare quale via percorrere, l’opposizione non potrà scomparire definitivamente, non la si cancellerà, la si risolverà, appunto, in una scelta: nell’argomentare a favore di un lato dell’opposizione e nel mostrare le ragioni della scelta stessa, che può condurre o all’accettazione di una delle due tesi e al rifiuto dell’altra, o alla consapevolezza che l’opposizione stessa non regge e che dunque rispetto ad entrambe le tesi non si può giungere ad una soluzione, o, in ultimo, che ciascuna tesi può essere scelta, ma su piani differenti.


Ogni oggetto, ogni azione, ogni fatto, che si definiscono per opposizione, non possono essere ricondotti - ontologicamente e logicamente - ad una identità assoluta, analitica, ad una distinzione assoluta, ad una determinazione completa, ad una sua definizione senza distinzioni interne e senza relazione con altro. Questi motivi e caratteristiche sono: a) ogni oggetto ha una identità distinta in se stessa e non solo rispetto alle altre identità; b) ogni oggetto ha accidenti e propensioni che non possono essere derivati dalla sua essenza (o identità) e che lo fanno ‘divenire’ e cambiare; c) ogni oggetto, in quanto ha in sé un’identità non univoca si connette, realmente e non solo logicamente, con la forma più forte dell’opposizione, la contraddizione: la sua identità è posta, cioè, al cospetto della non-identità.

Ed è proprio per queste caratteristiche, e soprattutto per quest’ultima, che una determinata realtà (psicologica, morale, sociale e politica) può portare in sé un conflitto reale, un’antinomia. In altre parole: non è detto che un conflitto tra due realtà, come avviene, per esempio, in molti casi di conflitti bellici, sia un vero conflitto reale: non ogni scontro è generato da una opposizione interna ad uno o ad entrambi i soggetti del conflitto. Più una realtà, un fatto storico, presentano caratteri antinomici, più la percezione giudicante, la valutazione deve ‘mettersi dalla parte’ dell’opposizione: deve vedere e comprendere l’antinomia stessa.

Un simile ‘mettersi dalla parte’ diverrebbe così una “comprensione estetica”, per come la definisce Kant, dell’oggetto, del conflitto reale affrontato. Una “comprensione estetica” è quella “misura delle grandezze mediante la semplice intuizione, a occhio”: “non bisogna né avvicinarsi troppo, né tenersi troppo lontani dalle Piramidi per provare tutta l’emozione della loro grandezza”. Ora, dato che di fatto, fisiologicamente, noi non vediamo con gli occhi del corpo una questione, un’idea, un problema, è impossibile in questi casi una “comprensione estetica”? Non è impossibile, perché, in analogia con la visione oculare, che mette a fuoco l’oggetto, la valutazione stessa di un’idea è ‘a fuoco’ quando è in grado di porsi a quella ‘giusta distanza’ che rende possibile argomentare sull’opposizione dinamica che quella stessa idea ci pone di fronte. Un indizio di trovarci alla ‘giusta distanza’ potrebbe essere quello di ‘vedere’ qualcosa nella sua interezza, nella sua unità: vedere quell’unità che rende coesistenti le parti, la genesi e la dinamica di quella particolare idea.




4. 2.4 La responsabilità ‘allargata’ .


Fare esperienza della necessità di comprendere un conflitto reale, a partire dalla sua identità portatrice al suo stesso interno di opposizioni, implica il principio della responsabilità: di una responsabilità che non affronta solo le conseguenze di una determinata realtà, ad esempio una guerra, ma mantiene nella propria memoria, come criterio guida per la futura azione, la sua genesi: la memoria delle opposizioni interne ad uno, o più, dei soggetti dell’antinomia. Si tratta di una responsabilità che percepisce e giudica, cioè, un’azione alla luce di ciò da cui essa segue e non solo di ciò che essa causa. Si tratta di una responsabilità che non si pone sul solo piano della reciprocità: si è responsabili anche di chi non lo è nei nostri confronti. Il solo piano giuridico, legislativo e politico ci porta spesso a dimenticare il piano di una responsabilità morale.


L’abitudine al capire le somiglianze e le dissomiglianze tra le singole azioni, la valutazione dei dettagli, trasformano il concetto di responsabilità individuale in un’altra esperienza della responsabilità, che sostiene la necessità delle antinomie.



4.3. L'habitus e la ricerca dell'atto intermedio


La capacità di volere liberamente un determinato atto, di imprimere una determinata direzione e finalità alla molteplicità dei propri atti implica, come abbiamo già visto, l'insorgere e il costituirsi di un habitus: la capacità di scorgere, prevedere, volere un atto che ancora manca, un atto intermedio tra quelli dati, percepiti ed eventualmente giudicati: questa capacità è presente in qualunque attività in cui l'uomo realizza se stesso, è una disposizione necessaria sia all'agire della vita quotidiana sia all'attività speculativa e scientifica; infatti così come un uomo non può non capire la differenza di significato e di valore che distingue i suoi accidenti, così lo scienziato acuisce la propria percezione e il proprio giudizio nella speranza di cogliere le differenze di significato e di valore degli elementi della realtà da lui studiata.

Quale ideale concreto guida qualunque serio scienziato empirico se non la fatica di trovare tra due specie date, quella intermedia, l'individuo intermedio? Un entomologo sa che fra due sottospecie conosciute c'è non solo tutto il lavoro passato, il lavoro teso a cogliere somiglianze e dissomiglianze tra gli enti, ma anche una nuova possibile sottospecie intermedia; come scienziato sa che ha visto e riconosciuto, concettualmente, le differenze e che ora deve intravedere, prevedere ciò che manca ancora: un nuovo intermedio risultato del costante legame che ciascuna identità tassonomica, ciascuna differenza specifica ha con la totalità degli enti, di quelli esistenti e di quelli possibili. Ogni scienziato sa che il suo lavoro è proprio quello di mantenersi empiricamente nel legame reciproco dei generi (e delle sue differenze) e nel legame tra questi e ciò che costantemente manca: la totalità dell'esperienza e l'individuo completamente determinato. Lo scienziato come il filosofo deve saper cogliere la coinonia dei generi, l'identità e le differenze all'interno dell'esperienza.

In modo forse più che analogico dobbiamo dire che ciascun uomo pone identità e differenze nella molteplicità unitaria dei suoi atti umani, vi coglie somiglianze e dissomiglianze, vi istituisce e vi scopre legami: atti intermedi, la cui dinamica interna è radicata nella struttura metafisica della participatio. E fa tutto ciò, sebbene secondo modalità diverse, come il filosofo e l'entomologo: riconoscendo, cercando l'atto intermedio tra due atti umani già dati. Che cosa è la capacità di giudizio, o quella affettiva se non la capacità acquisita, un po' per indole, un po' per esperienza, di giudicare, percepire e avvertire la direzione da dare a un atto, di precedere l'atto umano non ancora dato e sulla cui possibilità verranno a consolidarsi o a scomparire le abitudini, l'habitus, ossia quella capacità di ripetere un atto affinché gli gravitino intorno gli altri atti possibili, disponendosi così o al bene o al male.

Tommaso definisce l'habitus come una qualitas inclinans15: la capacità di operare in un modo piuttosto che in un altro. Le virtù, i vizi, la scienza, il possesso di un'arte sono esempi di habitus, un singolo atto non è un abito, lo è solo la ripetizione di atti simili, come risultato di un'attività libera. La prudenza, ad esempio, è l'abito di valutare rettamente; come la sinderesi è conoscenza dei principi morali più universali, così la prudenza è l'abito dell'intelletto pratico di arrivare a retti giudizi. Giudicare ciò che è bene e ciò è male ha come propria condizione di possibilità la potenza, la possibilità di istituire un habitus, un'attitudine ad applicare i principi universali ai casi singoli concreti. Si manifesta la necessità per l'uomo di vedere ciò che ancora non ha dinanzi a sé, ciò che ancora manca: l'atto intermedio tra due atti già dati. Nel giudicare un'azione buona o cattiva, nell'applicare cioè i principi morali a un caso concreto, l'habitus impone a ogni singolo uomo una disciplina di pensiero: quella di commisurare una determinata azione alle altre, a quelle date, a quelle non date e quasi anticipate dalla forza dell'habitus (al giudizio pratico che ne deriva) e alla totalità degli atti, mai completamente scontata in nessun singolo atto umano.

Il ridere, ad esempio, è per Tommaso un proprium accidens dell'uomo: questa valutazione di un atto così apparentemente accidentale come il riso, è molto importante. Ridere è sì un accidente, ma viene giudicato come un "accidente proprio" dell'uomo perché lo si è valutato senza separarlo dagli altri accidenti, ma appunto riconoscendo, grazie all'habitus del capire, ciò a cui si accompagna: alla beatitudine, prodotta dalla soddisfazione di una tendenza16. Similmente, il colore dei capelli può essere giudicato solo come un semplice accidente perché anche in questo caso ciò che si valuta sono i suoi legami con gli altri accidenti: e in questo caso i legami non lasciano di certo intravedere significati decisivi per il divenire e l'essere di ciascun uomo; si tratta di un accidente che non 'torna' sull'essenza dell'uomo perfezionandola.

L'abito è, per Tommaso, la disposizione affinché la potenza passi in un determinato modo all'atto. Ed è per questo che, perfezionando ciò che l'uomo è, nel caso naturalmente che si tratti di un abito 'buono', l'abito diviene una seconda natura. L'anima, come forma sostanziale, richiede, infatti, per svilupparsi in modo umano, l'acquisizione degli habitus. Se l'anima è quodammodo omnia, non può non regolare, in sé e fuori di sé, la molteplicità che le si contrappone e che la costituisce internamente: proprio perché l'anima è "in qualche modo tutte le cose" che diventa necessario imparare a cogliere somiglianze e dissomiglianze, a imporre una condotta agli atti umani. E' la molteplicità interna alle facoltà, alle possibilità, alle operazioni umane che necessita di abiti: "tutte le facoltà che possono essere in più modi ordinate ad agire, hanno bisogno di un abito per essere ben disposte al proprio atto" 17. Per Tommaso il male, come elemento della finitezza, si distingue in pena e in colpa 18. La pena è la mancanza di una perfezione che una cosa secondo la sua natura dovrebbe avere; la colpa costituisce il male morale e consiste nella determinata volontà umana di trasgredire la legge. L'esistenza dell'uomo è esposta alla colpa, in forza del libero arbitrio, ma forse è proprio la pena, la consapevolezza della propria imperfezione, ciò che può, più del pentimento per una colpa, tornare sull'essenza stessa dell'uomo, sulla sua forma sostanziale, per perfezionarla, per svilupparne ulteriormente l'individualità, perché la pena consente di fare esperienza di quanto ancora manca a una natura, alla propria natura umana. E penso che la pena renda più acuta l'indole, la capacità di scorgere quell'atto che ancora manca e che può consolidare o porre come nuovo un habitus. La pena mette sotto gli occhi tutto ciò che può ancora appartenere a una natura e il suo legame con la totalità dell'esperienza; consente di varcare i limiti dell'esperienza per tornare in questa stessa ulteriormente arricchiti. Da questo punto di vista nella pena si fa esperienza di ciò che manca negli atti già compiuti: ciascuno può così dire e pensare ciò che manca alla molteplicità data dei suoi atti, all'oggetto della sua libera volontà. L'esperienza di “ ciò che manca “ è proprio il luogo in cui si dimostra quanto e come alcuni atti sono liberi.

Valutare la differenza di valore degli accidenti di un'esistenza, dei differenti atti secondi, vuol dire capire il telos di una natura, la finalità che l'uomo può scoprire e insieme volere liberamente. Le nature umane si arricchiscono così di sempre nuove "perfezioni": arricchimento e sviluppo che é dato dalla dinamica interna alla vita degli atti secondi, i quali avvicinano realmente l'uomo a ciò che è in quanto tale, rendendogli possibile di farne esperienza.




4.4. L’ontologia applicata


4.4.1 “ONTOLOGIA APPLICATA”

ONTOLOGIA:

E’ la scienza di ciò che è, dell’essere in generale, dell’ente in quanto ente.

Il vocabolo ontologia appare nel XVII sec. Goclenio (1547-1628), Clauberg (1622-1665), ma la fortuna del termine è dovuta all’Ontologia di Wolff (1729): “metafisica generale”, preliminare rispetto alle tre scienze metafisiche speciali che sono la psicologia razionale, la cosmologia razionale e la teologia razionale.


APPLICARE:

Vc. dotta, lat. applicare ‘accostare, applicare’, comp. di ad e plicare ‘piegare’ Definizione: 1) collocare una cosa sopra un’altra in modo che combacino. Accostare, portare vicino. 2) Fig., Dare, attribuire. 3) Fig. Impiegare, destinare, concentrare. 4) Fig. Mettere in atto, far valere, celebrarla secondo un’intenzione. 5) Darsi, dedicarsi, dedicarsi con grande attenzione e diligenza19.


accommodare, applicare, imponere (adattare una cosa ad un altra); appliquer (porre sopra, adattare, unire); to apply, to enforce (mettere in atto), to impose (istituire), to assigne (collocare); kleben, aufkleben (fare aderire), auftragen (appl. di colori, di pomate), anbringen, einsetzen (apporre), einbauen (montare), verhangen (infliggere), anwenden (mettere in atto), gebrauchen, verwenden (usare); aplicar; primjeniat.


In generale, nell’idea dell’applicare è contenuta quella della relazione tra due elementi, (relazione vista, forse, prevalentemente come applicazione ‘meccanica’: sovrapporre, mettere in atto....). Comunque l’idea della “applicazione” (indipendentemente dal fatto della sua eventuale univocità e meccanicità) è presente nella nozione stessa di ontologia per come essa si mostra a) nella dialettica platonica del Sofista, – nella coinonia dei generi, dove la stessa partecipazione reciproca può essere vista come un ‘applicazione reciproca’, non omogenea ed indistinta, dei generi tra loro – e b), nella consapevolezza aristotelica che “l’essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad una unità ed ad una realtà determinata”20.

Il rapporto tra l’unità e la molteplicità, costitutivo della dimensione ontologica, può essere affrontato in due modi principali: a) uno, che vede il rapporto stesso come una applicazione, dell’unità agli elementi del molteplice, tale da portare ad identità assoluta l’unità e la molteplicità, (il che forse emerge anche dai termini delle diverse lingue che abbiamo su riportato), ed un altro b) che pur nel riferire quella a questa riesce a mantenerne la distinzione.

Emblematico del significato di entrambi i modi di impostare il rapporto in questione e soprattutto dei motivi ontologici che possono portare dal primo al secondo – cioè da uno prevalentemente univoco e meccanico ad uno maggiormente fondato sulla nozione di analogia – è l’itinerario del pensiero di Kant e, in base a una diversa serie di motivi, quello di Wittgenstein.

In modo molto schematico possiamo dire che il passaggio dalla concezione della Critica della ragion pura – nella quale il rapporto tra il concetto (unità) e le intuizioni (molteplice) è impostato secondo modalità prevalentemente meccaniche ed univoche, come testimonia il significato dei termini ‘tecnici’, Subsumtion (sussunzione) e Anwendung (applicazione), usati nel capitolo sullo schematismo trascendentale e nella Deduzione trascendentale – a quello della Critica del Giudizio - dove si muove proprio dalla molteplicità empirica, in sé eterogenea, della natura, e dove non a caso si usano tecnicamente termini come systematischen Unterordnung (subordinazione sistematica), per rendere conto del rapporto tra il particolare dato e l’unità “da ricercare” grazie alla attività riflettente e non determinante della Urteikraft, che, infatti, cerca le somiglianze, le analogie, tra le singole cose è determinato proprio dalla necessità speculativa di passare, “a vantaggio dell’esperienza”, dal primo modello di applicazione ontologica al secondo.


Similmente, Wittgenstein passa dalla concezione referenzialista del significato – espressa nel Tractatus, dove si afferma che: “la proposizione può rappresentare (darstellen) la realtà tutta, ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve avere in comune per poterla rappresentare (cfr. elemento prevalente dello schematismo “rappresentativo-sussuntivo” kantiano), la forma logica. ... Ciò che nel linguaggio esprime sé, noi non lo possiamo esprimere mediante il linguaggio. La proposizione mostra (zeigt) la forma logica della realtà. L’esibisce (weist). ... Ciò che può essere mostrato non può essere detto (Was gezeigt werden kann, kann nicht gesagt werden)21 – alla concezione del significato come determinato dall’”uso” , sostenuta nelle Ricerche filosofiche, dove si prospetta come centrale, per il passaggio in questione, la nozione di “rappresentazione perspicua”: “la rappresentazione perspicua rende possibile la comprensione, che consiste appunto nel fatto che noi ‘vediamo connessioni’. Di qui l’importanza del trovare e dell’inventare membri intermedi. Il concetto di rappresentazione perspicua ha per noi un significato fondamentale. Designa la nostra forma rappresentativa, il modo in cui vediamo le cose” 22.

Ritengo che, indipendentemente dalle innegabili differenze che separano l’itinerario di Kant da quello di Wittegenstein, sia comune ad entrambi l’allontanamento dal - non negazione del - modello, diciamo, per comodità espositiva, meccanico ed univoco (ad usum privatum: essenzialistico) dell’applicazione dell’unità alla molteplicità - in Kant del concetto all’intuizione, grazie al “medio” dello schema, in Wittgenstein della proposizione ai fatti, grazie al “medio” della forma logica - per ‘passare’ ad un modello maggiormente connotato da caratteristiche affidate ad una attività capace di cogliere somiglianze e dissomiglianze, di cogliere, cioè, analogie - rispettivamente: l’attività riflettente della Urteilskraft e la rappresentazione perspicua. Il passaggio in questione è stato reso necessario da una questione che non poteva essere neppure adeguatamente impostata, ancor prima che risolta, permanendo nel primo tipo di “applicazione”: la comprensione della singola cosa e delle relazione concrete che questa ha con le altre, ammesso che si ritenga che queste stesse relazioni non siano inscritte analiticamente nell’essenza di ciascuna singola cosa (sempre ad usum privatum: essenzialismo). Come in Kant è la comprensione del molteplice delle cose esistenti in natura che determina il passaggio; così in Wittgenstein, è il poter effettivamente dire qualcosa al di là dei limiti della forma logica – in base alla consapevolezza di non poter mai giungere realmente a proposizioni elementari – a determinare il passaggio in questione.



4.4.2 Ontologia ed epistemologia


Ontologia applicata”, dunque, non ad una realtà, naturale e/o storica, costituita da elementi tra loro indistinti ed omogenei, né ad una avente elementi irrelati reciprocamente, in quanto dotati di una propria identità assoluta, completamente determinata, ma ad una realtà composta da enti a loro volta composti di una essenza ed una esistenza tra loro distinte realmente: una realtà, che così riconosciuta, può essere adeguatamente compresa, quindi, in base ad un modello epistemologico di tipo analogico.

Senza voler ricondurre entro i motivi ontologici di una simile adesione al modello ontologico dell’analogia i lavori della cosiddetta “ontologia applicata”, elaborata, tra gli altri, da B. Smith23, è possibile almeno evidenziarne, motivatamente, i seguenti caratteri (per come questa corrente ci viene presentata dalla stampa che si occupa di informare sulle attuali questioni filosofiche, cfr. in part. il supplemento della Domenica del “Sole 24 ore”): “ontologia applicata: una disciplina che si occupa di questioni relative a Internet, alle biotecnologie e a una miriade di ambiti pratici” 24.


4.4.3 Problemi affrontati: la classificazione delle entità presenti o insorgenti nella realtà naturale e storica. “Inquadrare vecchi e nuovi oggetti”.


A) Coordinazione dei database. In che modo i dati campionati dall’Istat e quelli campionati dal suo corrispettivo inglese possono venir paragonati? Si è tenuto conto delle differenze delle strutture fondiarie? In che cosa consiste la proprietà immobiliare 25 ?


B) Problemi dell’intelligenza artificiale.


C) Definizione degli enti geografici o giuridici. “Gli ordinamenti giuridici - afferma D. Koespell - sono generalmente costituiti da entità giuridiche, come leggi contratti, obbligazioni e diritti. La loro applicazione genera nuove categorie di oggetti come: società, marchi, matrimoni e particelle di proprietà immobiliare. Ma la categorizzazione di queste entità è stata per lo più condotta senza l’ausilio degli strumenti della moderna ontologia e spesso pertanto appaiono contraddizioni e incongruenze, come ad esempio, quando un’entità viene inquadrata in due categorie tra loro incompatibili. Si pensi al software, che è ritenuto brevettabile e nello stesso tempo è protetto dalla legge sul copyright”. I rapidi progressi tecnologici costringono legislatori e giudici a fare i conti con oggetti in costante mutamento. Gli ordinamenti giuridici devono inquadrare concettualmente cose come i prodotti dell’ingegneria genetica, l’intelligenza artificiale, la moneta virtuale, l’impronta del Dna e Internet, in schemi giuridici che non erano stati pensati per questo tipo di oggetti.

Esempi: esistono confini nazionali su Internet? Le creazioni dell’ingegneria genetica devono essere tutelate come la proprietà intellettuale? Che cos’è un sistema operativo, cfr. controversia tra Microsoft il Ministero di Giustizia degli Stati Uniti26.


D) Studio delle caratteristiche specifiche delle lingue naturali. Problema delle risorse linguistiche: “si tratta di sistemi computazionali - afferma F. Pianesi, linguista dell’Irst di Trento - che descrivono e sistematizzano sia i concetti adoperati dal lessico di una data lingua che la le loro mutue relazioni”. Integrazione delle informazioni tra le lingue in Internet; La Comunità europea ha già stanziato ingenti risorse per questi studi (l’Italia non ha ancora rispettato le scadenze).


E) Individuazione di strumenti metodologici adatti ai sistemi informativi.


F) Studi che si occupano delle strutture e delle relazioni, incentrate sulle nozioni di “parte” e “intero” 27, “dipendenza”, “confine”, “continuità” presenti nelle singole scienze. Armamentario concettuale, questo, che, secondo B. Smith, è utile per dare un buon resoconto degli oggetti della nostra esperienza quotidiana, e in particolare del concetto di sostanza individuale.


G) Problemi di neurobiologia 28.

H) Problemi relativi al collegamento tra decisioni ed ontologia: rapporto tra “etica applicata” 29 e “ontologia applicata”.


I) Questioni relative ai “sistemi complessi” (biologici in part.)30



4.5. A mo’ di manifesto filosofico per la consulenza filosofica31


Prima di enucleare alcune caratteristiche che considero fondamentali ai fini di quella prassi che è la consulenza filosofica e di indicare, ad un tempo, i principi speculativi generali da cui muovo, non solo nell’esercizio della consulenza stessa ma, ancor prima, nella ricerca e nella didattica filosofica (dimensioni che ritengo, fra loro, intimamente connesse), vorrei accennare ad una questione che gioca un ruolo centrale nella discussione – di respiro ormai internazionale – relativa al tema in questione: quella del rapporto fra la consulenza filosofica e le nozioni di “terapia”, “cura” e “cura di sé”. Questa premessa è motivata dal fatto che non ritengo di pertinenza esclusiva del filosofo, e neppure di chi svolge concretamente l’attività della consulenza, stabilire i confini che separano tale attività dalle terapie di ambito psichiatrico, psicoanalitico, psicologico e del counseling.

La filosofia, quando fa uso di determinate categorie logiche ed ontologiche, di determinati principi etici, estetici o politici, è già di per sé una prassi che, nell’interazione con i singoli e con la collettività, tende a produrre una comprensione “allargata” dell’esperienza, al fine di muoversi più agevolmente in essa, di determinare un cambiamento o, finanche, un miglioramento delle condizioni date.

Ritengo, pertanto, che, in passato, sia stato più un problema degli ambiti di terapia, di cui dicevo prima, l’essersi dovuti distinguere dalla filosofia in generale, magari proprio attraverso la specificità delle loro tecniche. Per la filosofia, invece, il compito attuale, rispetto alle sue possibili “applicazioni”, è non tanto di stabilire distinzioni disciplinari specifiche, quanto di ribadire il proprio ruolo, non in modo astorico, ma a partire dalla condizione storica presente. Ancora una volta, essa deve configurarsi come “il proprio tempo appreso con il pensiero”. E ciò affinché la consulenza filosofica possa esercitarsi, per così dire, come una “pressione” fenomenologico-trascendentale sull’esperienza.

E poi, anche a voler acconsentire a chi crede che spetti ai filosofi di stabilire i confini disciplinari, penso che un tale compito sia pressoché infinito: tanti e diversi fra loro sono, infatti, i modelli che convivono e confliggono reciprocamente in ciascuna delle discipline che prima ho nominato. La psichiatria, ad esempio, non è una e una sola, con la conseguenza che ogni diverso modello teorico implica l’assunzione di criteri diagnostici e terapeutici diversi: il che è certamente un problema per la filosofia32. La psicoanalisi, altrettanto, non è una e una sola. E ciò vale anche per la psicologia e per le molteplici metodologie del counseling. Forse, i soggetti più accreditati per distinguere “dall’interno” la consulenza filosofica dalle terapie sono proprio coloro i quali, come singoli individui, si recano dal filosofo, per instaurare un rapporto di consulenza, e che hanno già avuto esperienza diretta e personale della psichiatria, della psicoanalisi e così via. Ma si tratta, qui, prevalentemente, di una distinzione post-festum e non epistemologicamente giustificata. Dai vari colloqui emergono differenze che possono essere utili non solo al filosofo che esercita la consulenza, ma anche agli specialisti di altre forme di terapia.


Consulenza filosofica, filosofia pratica, ontologia applicata: in molteplici modi si può definire la filosofia come forma particolare di comprensione di quelle condizioni individuali, di gruppo o collettive che, vissute con disagio più o meno grande, o come qualcosa di cui sfugge il profilo preciso, generano dubbio, vista la loro mancanza di coerenza, e fanno sorgere, perciò, in chi le vive, un bisogno, inappagato, di compiutezza.

Ma, al di là delle formule, la filosofia – nelle sue tante e diverse forme storiche: le filosofie – è, nella sua essenza, un modo particolare di sapere e di capire. Essa, infatti, cerca di mantenere legate fra loro, senza confonderle, le diverse dimensioni cui ci si rifà per comprendere un qualcosa:




In sostanza, pur senza accordare alla filosofia una preminenza sulle altre forme del sapere, non si può non riconoscere che, quando essa comprende un qualcosa, tiene insieme dimensioni che le altre scienze tengono, di solito, nettamente separate.

Proprio per queste sue caratteristiche, possiamo dire, fin d’ora, che la consulenza filosofica dovrebbe essere diretta e intenzionata non solo, e soprattutto, al disagio individuale e/o collettivo, quanto piuttosto a fornire tutti quegli strumenti concettuali che consentono di mantenersi nelle condizioni “buone” e “favorevoli”. E ciò tanto a livello individuale, quanto a livello dei rapporti sociali, politici e di lavoro. Ad esempio, ottima cosa sarebbe ricorrere alla consulenza filosofica per mantenere entro una soglia positiva, “nel bene”, il proprio rapporto sentimentale, la propria dimensione lavorativa e sociale, per meglio capire i vari aspetti del proprio vissuto emotivo, della propria professione, le sfumature quotidiane della propria vita spirituale. Non si tratta, però, di “medicina preventiva”: la filosofia non è medicina, ma è scienza che permette di conoscere e di apprezzare tutte quelle risorse individuali e collettive che sono a nostra disposizione per produrre un’attenzione “vivificante” nei confronti delle situazioni “buone” in cui ci si trova, per merito o per caso. È fin troppo evidente che gran parte del disagio esistenziale è dovuto non solo a ciò che non si ha e che si vorrebbe avere, ma a ciò che si è perso, che non si ha più o che, comunque, sembrava tanto a portata di mano da apparirci come già raggiunto.

La filosofia come comprensione di una qualsiasi condizione di esperienza è, ad un tempo, comprensione delle sue articolazioni interne. E ciò vuol dire che essa può favorire, quanto meno, una “buona presa di posizione” all’interno di una situazione “negativa”, o anche indicare le vie per permanere in una situazione “positiva”, senza lasciarla consumare ed esaurirsi nel tempo. Nella vita, non di rado, il male sopraggiunge velocemente, mentre il bene si allontana lentamente, proprio perché gli si presta scarsa attenzione. La filosofia, così, è un’arte per ben discernere le condizioni dell’esperienza, per poterle, se possibile, modificare o anche rifiutare, se appaiono “negative”, o, al contrario, accettare e consolidare, se appaiono “positive”. La prassi della filosofia è un habitus che consiste nel capire bene un qualcosa per agire meglio rispetto ad esso e dove il primato spetta, appunto, al secondo di questi due momenti: quando certe esperienze personali o intersoggettive ci diventano familiari, quando ci si educa lentamente ad un habitus di adeguatezza a sé e agli altri, ecco che allora l’agire precede, addirittura, lo stesso capire. È come se, ancor prima di ogni indagine conoscitiva, ci si imponga la necessità di una condotta: di quel che ci avvicina a ciò cui, per natura, tendiamo e che ci allontana da ciò da cui, sempre per natura, rifuggiamo. Secondo me, tutto questo è ciò che da sempre è stato inteso con il termine “saggezza”: la capacità, sana e coraggiosa, nonché esemplare quanto serve, di mettere in atto l’azione giusta al momento giusto, di attingere l’“apice” dell’azione nel momento e nei modi che sono essenziali ad essa. Questa “cura di sé” e, ad un tempo, delle relazioni sostanziali che intratteniamo con gli altri, la si apprende nel tempo, nel corso dell’esperienza della nostra esistenza. Ed ecco perché è necessario parlare di “esercizi” (e, finanche, di “esercizi spirituali”) quando si pratica questa attenzione nei confronti dei dettagli, degli accidenti e delle differenze minime che accompagnano ogni esperienza e, in modo particolare, quelle più importanti, quelle dove con gioia o con dolore avvengono i cambiamenti delle cose, il loro divenire, e certe volte il loro scomparire e morire.

Dunque, più che di terapia in senso stretto, si tratta di un esercizio continuo di valutazione cognitiva, etica ed estetica, della propria vita. Se, poi, tutto ciò significa comprensione dello stato di disagio, per uscire da esso, o di quello di benessere, per permanere in esso, parlare, allora, di “malattia” e di “salute”, di “terapia” e di “cura”, anche per l’esercizio della filosofia, mi sembra cosa del tutto legittima: capire un conflitto33 per risolverlo o, quanto meno, per poter coesistere con esso, è un’attività complessa che presenta, tra le sue facce, anche quella di mirare ad una “guarigione” dalle cause del conflitto stesso attraverso la ricognizione dei suoi effetti. Non diversamente, capire i particolari, i dettagli, gli accidenti, di una condizione esperita come positiva rende più stabile il possesso di quel bene e più difficile perderlo, per cui, anche in questo caso, il parallelo con la nozione di “cura” mi sembra, oltremodo, pertinente.

Ma, da dove viene alla filosofia questa capacità? Certamente, da uno specifico atteggiamento logico, ontologico, etico, nonché estetico, il quale, nella relazione reciproca fra questi diversi momenti, dà vita all’unità sistematica di una forma organica di pensiero34: un pensiero capace di concepire e di praticare il concetto di identità non in modo univoco, ma come un qualcosa che è, in sé, strutturalmente distinto; che sa fare esperienza della disomogeneità della realtà: degli accidenti che ineriscono al singolo individuo, alla società, alla storia; che sa cogliere l’unità nel molteplice e la molteplicità nell’unità, passando, con disciplina e nel segno della giusta misura, dall’universale al particolare e viceversa35; che, come voleva Kant, insegna a lasciare la terra sicura della verità verso il mare aperto del pensare36; che mostra la radice comune di tutte le forme dell’esperienza, dalla più ordinaria a quella mistica37.

La filosofia all’altezza di tutto ciò deve praticare in modo rigoroso l’analogia e, in particolare, la dimensione ontologica di essa: l’analogia entis; esercitare, in modo non univoco, l’esperienza dell’empatia; sorreggere tutto il peso della memoria (personale e storica); sviluppare le sue riflessioni attraverso forme argomentative adeguate all’indice problematico del pensiero speculativo stesso (ad esempio, attraverso il metodo della Questio disputata38); farsi prassi della responsabilità, non intesa solo nel senso del rapporto di reciprocità39; esibire e testimoniare tutta la “difficoltà” della libertà40, “difficoltà” agita e patita nel quotidiano rapporto con l’altro41; affrontare la dolorosa, anche se in certi casi inevitabile, interruzione della comunicazione con l’altro42; mostrare quanto decisiva sia l’azione per l’essere stesso del singolo, dal momento che l’agire discende dall’essere (agere sequitur esse43); penetrare nel nucleo più intimo della volontà umana: nel suo libero voler-essere, commisurato alla natura di ciò cui essa tende44. E nel caso in cui l’orientamento di questo tendere sia spirituale e, ancor più precisamente, religioso, farsi capace di non tralasciare nessun particolare, per quanto piccolo, di quella modalità del rapporto con l’altro che è il rapporto con Dio.

Nei secoli, molte filosofie hanno teorizzato e praticato dimensioni simili a quelle che io ho appena indicato. Ciò è dipeso, penso, dalla presenza, in esse, di alcuni elementi comuni. Se, qui, dovessi indicarne i principali, direi che essi sono: l’attenzione costante agli accidenti dell’esperienza, nella consapevolezza che un’essenza non è mai data in modo statico e completamente determinato. Inoltre, la coscienza (va detto, ancora una volta, logica, ontologica ed etica) che l’identità di un qualcosa non è un che di monolitico e di univoco, ma contiene in sé distinzioni, che possono essere capite ed “agite” solo attraverso gli accidenti. Una simile filosofia si impegnerà a dimostrare che l’identità di ciascuna singola cosa, di ciascuna singola azione, di ciascun singolo evento, è un’identità costantemente correlata alla distinzione e, ciò, non tanto per il fatto che sta in relazione con altre identità determinate, ma quanto perché essa stessa è, in sé medesima, distinta. E lo sarebbe anche se esistesse una sola cosa, una sola azione, un solo evento e, dunque, anche se essa non intrattenesse relazioni esterne. L’identità di ciascuna cosa porta entro di sé la distinzione perché essa si estrinseca in accidenti tra loro realmente, e non solo gnoseologicamente, disomogenei, perché il suo divenire non è meccanico, ma si svolge assecondando propensioni la cui attuazione implica contingenza.

Dunque, si tratta di una pratica filosofica rivolta non solo alle scienze naturali, ma anche alle scienze umane e che, di conseguenza, deve saper interagire produttivamente con il vissuto (doloroso o appagato che sia) del singolo individuo. A seconda dei casi, avremo, così, una consulenza filosofica individuale, una consulenza di gruppo, una consulenza mirata a quelle professioni (giornalisti, medici, scienziati, avvocati) che comportano un forte carico di responsabilità etica, una consulenza aziendale45. In tutti questi casi, ritengo che lo “specifico filosofico” consista nel saper passare dall’esperienza vissuta in prima persona (Erlebnis), mai abbandonandola, all’esperienza comunicabile in modo universale (Erfharung). Forse, e soprattutto nella consulenza individuale, questo passaggio sembra, a prima vista, improduttivo, come se comportasse un perdere il sé. Ma poi, a ben vedere, in esso non si perde nessuna delle caratteristiche che ci sono più proprie, anzi le si comprende in modo nuovo, e forse più ampio. In tutti i casi, soprattutto quando si tratta di esperienze di malessere e di conflitto interiore, il passaggio dalla sfera dell’io al rapporto io-tu permette di conseguire un vero e proprio stato di salute. Capire che la condizione in cui ci si trova, anche se molto dolorosa, non è identica a se stessi conduce ad una distinzione fra sé e quella condizione stessa che non può non portare con sé un bene: io non sono identico alla situazione di disagio o di conflitto in cui mi trovo, essa è una condizione accidentale, che non coincide con la mia identità.

Questo, io credo, è il centro di gravità metafisico del capire e dell’agire della Filosofia.










4. 6 Per una “messa in fuga” della volontà


Comunque si voglia concepire la volontà in quanto tale, meglio sarebbe non concepirla affatto. È come se il problema si riducesse a stabilire il ruolo che essa svolge rispetto alle altre facoltà. Tutt’al più, a partire da posizioni filosofiche “libere” rispetto al problema delle distinzioni tra le facoltà, la volontà appare e scompare nell’insieme della vita emotivo-cosciente dell’uomo: appare come nome, per indicare la “scelta” (consapevole o meno), mentre scompare come astrazione, necessaria ma sempre astrazione, nel “tutto” biologico-emotivo e cognitivo umano.

Meglio liberarsi dell’identità, peraltro innegabile, fra la libertà e la volontà, dove è proprio il libero arbitrio il termine che sta a suggellare una tale identità. In fin dei conti, tutto ciò è giusto: se sono in grado di scegliere è perché ho la facoltà, la capacità, di farlo. E tale capacità, che si trovi in atto o in potenza è, comunque, libero arbitrio, tanto “in negativo” (nel senso del non trovarsi impedito), quanto “in positivo” (nel senso del poter porre in essere l’atto di una scelta). Nel termine stesso di “libero arbitrio”, la nozione che scandisce l’unità di libertà e volontà è, forse, quella di coscienza, dell’esser-coscienti (in modo più o meno consapevole). Ma è proprio questa identità che va ripensata. La libertà non è solo (certamente anche, ma non solo) libero arbitrio e volontà: essa, pur precedendo e rendendo possibile l’arbitrio, la scelta, è anche altro da ciò di cui è condizione.

La libertà come non è soltanto un universale, un concetto, se non per astrazione semplice, così non è neppure un individuale, un particolare in quanto tale, se non per riduzione ai singoli individui che la esercitano (appunto nelle scelte, nell’arbitrio, nella volontà). E non è neppure la sintesi di universale e di particolare, perché, forse, è proprio nella “sintesi”, nella adaequatio, più che altro meccanica, di universale e particolare, che la libertà viene a sparire. Rimane solo la traccia di essa: la scelta, l’arbitrio, la volontà frustrata o appagata.

Ma perché la libertà non si riduce a tutte queste dimensioni e connessioni cui abbiamo fin qui accennato? Perché, penso, ancor prima di una facoltà della sfera emotivo-cosciente dell’uomo, essa è la struttura ontologica dell’oggetto stesso su cui cade la scelta della volontà.

Spesso, e forse per fortuna, ci si accorge di aver scelto e di aver voluto solo post festum: non prima di scegliere e di volere. È un bel segno (almeno si spera): il segno di un’adeguatezza non meccanica, istintiva e insieme cosciente, all’oggetto del proprio tendere. Post festum ci si rallegra o ci si rattrista della propria libertà: si può essere vicini al proprio oggetto, o lontani da esso, “bene” o “male”. “Bene” e “male” che consistono, rispettivamente, nella conformità o nella difformità rispetto all’“ordine, al peso, alla misura”, al “ritmo” dell’oggetto del proprio tendere.

Libero è quel legame che può essere instaurato, liberamente, fra l’uomo e la natura di ciò a cui egli tende. Rispettare, ammirare, arricchire tale natura rende libero l’uomo, il quale, per sua natura, è già libero. Se la libertà è una facoltà, essa lo è a patto che la si intenda come quella capacità di assecondare, accettare, avvertire e contemplare, una natura che è altra da se stessi. La libertà, se è una facoltà, lo è non tanto di una o anche di tutte le coscienze, quanto del legame tra chi tende e ciò a cui si tende.

Se questo è vero avverrà un qualche effetto sulla volontà: un effetto, penso, ‘benefico’: si dovrebbe sentire un peso nell’essere capaci solo di ‘coniugare’ il verbo volere: “io voglio”, “tu vuoi”, “egli vuole” e così via. Mia intenzione non è affatto di cancellare il soggetto (e le sue forme grammaticali). Tutt’altro. Il punto è che il soggetto volente, in quanto libero (in quel senso, da me, solo accennato), non è mai “uno”, ma è sempre “legame con altro da sé”. La parola stessa volontà dovrebbe essere sempre pronunciata, de jure, almeno da due voci. E ciò quand’anche il proferente fosse uno solo: nel suo libero volere è operante il legame, “accordato” o meno, con il “ritmo” del proprio oggetto.


4.7 Il progetto di consulenza filosofica aziendale

Schema per un progetto di Consulenza filosofica relativa alla gestione del disagio e dei conflitti nell’ambito delle dinamiche del lavoro aziendale46.

Si tratta di un progetto che intende capire le cause (passato), l’identità essenziale (presente), e le propensioni (futuro possibile), di una determinata situazione “lavorativa” che genera disagio e conflitto nella prospettiva di indicare le possibili strategie per risolvere tale “situazione” e di realizzare un miglioramento delle relazioni umane potenziando gli aspetti etici del rapporto di sé con sé, di sé con gli altri lavoratori, di sé con l’azienda nella sua interezza, di sé con la società.

Tutto ciò, tenendo presente che un simile obbiettivo organico consente, inoltre, di abbassare i costi per il personale sostenuti dall’azienda.

Momenti principali attraverso i quali si verrà sviluppando il progetto di consulenza filosofica:

a. Realizzazione di un “quadro ideale” a cui l’azienda nella sua interezza dovrebbe giungere. Tale “quadro” non deve essere elaborato solo alla luce della situazione di “disagio e conflitto”, ma tenendo ben presente tutte le altre dimensioni costitutive dell’azienda. In modo che il lavoro stesso di comprensione e di azione nei confronti della situazione di “difficoltà” non perda di vista sia il contesto generale dato, sia il quadro ideale a cui si dovrebbe poter pervenire.

  1. Realizzazione di uno studio affidato ad uno “storico del lavoro” che ricostruisca sia la storia particolare - relativa all’azienda specifica – che ha portato alla situazione di “disagio e conflitto” (d’ora in poi S.D.e C.), sia una ricognizione su territorio nazionale ed internazionale volta ad individuare tutte le situazioni simili date nella storia al fine di offrirne uno studio comparato volto ad individuare le possibili soluzioni già tentate nel passato.

  2. Realizzazione di tre Tabelle per la raccolta dei dati su cui impostare nel dettaglio la soluzione della S.D. e C.:







  1. Realizzazione di questionari anonimi da sottoporre ai lavoratori del settore in questione (S. D. e C.) per arricchire e precisare la Tabella delle “propensioni”. Tali questionari saranno formulati e poi interpretati anche da psicologi e psicoterapeuti, per non tralasciare la dimensione strettamente personale del disagio e del conflitto che ciascun singolo individuo si trova a vivere in un modo specifico e non generico. Tale attenzione al particolare, alle singole persone, già di per sé componente etica fondamentale per l’intero progetto di consulenza filosofica, sarà determinante per accordare il cosiddetto “quadro ideale” alle concrete esigenze dei singoli. Naturalmente tale “accordo” potrà essere realizzato sempre solo in parte: velleitario sarebbe ritenere che le specifiche differenze tra le persone, determinate da così tanti fattori accidentali, potrebbero essere accolte nella concreta dinamica lavorativa di una qualsiasi azienda e dal suo eventuale “quadro ideale”. Ma la formulazione e l’interpretazione dei questionari e il loro confronto con la Tabella delle “propensioni” potrà realizzare un obbiettivo molto importante: quello di individuare diverse sotto classi del più generale “quadro ideale” e diverse sotto classi dello schema generale che dovrebbe guidare al miglioramento e al cambiamento della S. D. e C.: le “sotto classi” indicheranno le principali aree problematiche che sono emerse “dal basso”, cioè dai dati raccolti attraverso i questionari. Si potrà essere certi, così facendo, che si verrà incontro alle principali tipologie delle esigenze, dei disagi, dei conflitti, vissuti da ciascun singolo lavoratore. Tali tipologie, costituiranno, pertanto, uno dei momenti centrali per la elaborazione e realizzazione delle strategie per la soluzione definitiva della S. D. e C.



  1. Realizzazione alla luce di tutto il lavoro svolto, non solo del piano dettagliato per la soluzione della S. D. e C., ma anche di una “Carta Etica” da assumere quale “codice etico” interno all’azienda per prevenire situazioni simile a quella affrontata che potrebbero presentarsi in futuro in altri settori e con altre caratteristiche.


* Professore di Storia della filosofia contemporanea presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum e docente di Bioetica presso l’Università degli Studi Roma Tre; Presidente dell’IFACE.crf.

1 Questo approccio è esemplato nel mio Per un’epistemologia della cura, in Kéiron, 12/2003, pp. 32-37, ove si affronta il problema del rapporto tra diagnosi e terapia.

2 Rinvio in particolare all’Istituto di Filosofia e di antropologia clinica esistenziale. Consulenza ricerca e formazione IFACEcrf www.ifacecrf.it di cui sono Presidente.

3 Per la realizzazione del presente Schema di consulenza filosofica aziendale si è prevista una parte relativa alle “relazioni umane” di competenza dell’Ingegnere Vincenzo Fragolino, una relativa agli aspetti psicologici, psichiatrici e psicopatologici a cura dei Professori Gianfranco Buffardi e Ferdinando Brancaleoni ed una riferita alla sfera della “formazione continua” a cura della Dottoressa Alessia Porena.

4 Professore di Storia della filosofia contemporanea presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum e docente di Bioetica presso l’Università degli Studi Roma Tre; Presidente dell’IFACE.crf.


527 Il presente paragrafo è apparso, in forma diversa, in AA.VV., Biologia domani: Dr. Jekyll o Mr. Hyde, (a cura di Jader Jacobelli) , Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.

6 Encyclopedia of Bioethics, a cura di W. Reich, McMillan Free Press, NewYork 1978, 1995 (2); cfr. voce “Bioethics”.

7

 Alcuni paradigmi fondamentali sulla natura della malattia (Su ciò cfr. G. Federspil, La malattia come evento biologico, in <<Minerva Medica>>, vol. 81, N. 12, pp.845-854):

a) La malattia è un insieme di sintomi o di manifestazioni cliniche.

b) La malattia è una lesione morfologica di una struttura dell’organismo; come alterazione anatomica.

c) La malattia è un’alterazione fisico-chimica dell’organismo; come alterazione iatrochimica e/o iatrofisica.

d) La malattia è un’alterazione della forza vitale dell’organismo.

e) La malattia è un’alterazione funzionale.

f) La malattia come evento biologico (alterazione dei meccanismi omeostatici di un vivente, nel rapporto uomo-ambiente, con possibili danni morfologici , biochimici e fisiologici).


8 Alcuni “linguaggi” (come tipologie terminologiche per descrivere e spiegare) della medicina (cfr. H. T. Engelhardt Jr., Manuale di Bioetica, trad.. it. Il Saggiatore, Milano 1999,in part. Cap. V):

a) “linguaggio valutativo”: assunti valutativi con cui si stabilisce quali funzioni, dolori e alterazioni siano normali, ossia appropriati e accettabili;

b) “linguaggio descrittivo”: idee su come si debbano formulare le descrizioni (termini eziologici, anatomici o clinici);

c) “linguaggio esplicativo”: modelli di spiegazione causale e

d) “linguaggio” plasmato dalla realtà sociale: aspettative sociali riguardanti singole malattie o forme particolari di infermità.


9 Alcuni approcci fondamentali nello studio delle malattie:

a) la nosologia (la scienza che definisce e classifica le malattie)

b) la patologia (la scienza che studia i cambiamenti morfologici e funzionali di natura morbosa delle strutture biologiche e il decorso dei processi patologici dell’organismo)

c) l’epidemiologia (la scienza che studia la frequenza e la distribuzione delle malattie nel tempo e nello spazio)

d) la clinica (diagnosi e trattamento delle malattie)

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 Principali tipi di classificazione in medicina (Cfr., H. R. Wulff, S. A. Pedersen, R. Rosenberg, Filosofia della medicina, trad. it., Raffaeollo Cortina Ed., Milano 1995, in part.cap. VI):

a) sintomatologia clinica (1700)

b) anatomia patologica (1800 ca.)

c) fisiologica (1830 ca.)

d) microbiologia e agenti infettivi (1870 ca.)

e) immunologia e epidemiologia

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 Stabiliti questi primi punti di partenza, per avviare una analisi epistemologica dei problemi bioetici interni alla scienza in generale, con l’intenzione però di circoscrivere il nostro esame soprattutto all’ambito della ricerca e della clinica medica, possiamo mettere in evidenza il carattere non solo teorico, ma anche “applicativo” degli assunti da cui stiamo prendendo le mosse, a titolo esemplare, nell’indicare un insieme di domande che possono essere rivolte ad un operatore sanitario (ricercatore e clinico) per ricevere un’analisi epistemologico-etica di un caso clinico:


Domande a cui rispondere per la stesura ragionata dal punto di vista epistemologico, etico e bioetico di un caso clinico.


I) Descrizione del caso clinico


a) A quale “paradigma” di malattia - tra quelli indicati (cfr. note 2-5) - si è fatto, prevalentemente, ricorso? E’ stata avvertita, a questo livello iniziale, la presenza di questioni etiche?

b) A quale tipo di “linguaggio”, di teoria scientifico-medica e di classificazione si è fatto, prevalentemente, ricorso? E’ stata avvertita, a questo livello iniziale, la presenza di questioni etiche?

c) Quali tipi si sintomi o di segni sono stati privilegiati nell’elaborazione della diagnosi?

d) Quali tipi di supporti scientifici e tecnologici sono stati usati, e come sono stati scelti, per l’elaborazione della diagnosi?

e) Quali altre diagnosi, concorrenti con quella scelta, sono state scartate, e perché?

f) In base alla diagnosi scelta, quante terapie si presentavano e perché? Quale, e perché, è stata di fatto scelta? Quale ruolo ha, nella terapia, l’assunzione di farmaci? La terapia farmacologica si accompagna ad altre forme di terapia? Vengono somministrate sostanze farmacologiche sperimentali? Quali condizioni non strettamente mediche, se ci sono, orientano la scelta della terapia?

g) Quando si è sentito realmente il ruolo del rapporto medico-paziente, nella scelta della diagnosi e della terapia?

h) Quali problemi ha posto, nell’interazione medico-paziente, la scelta e la comunicazione della diagnosi e della terapia? Come è stato “fatto salvo” il principio della beneficità? Come è stato ottenuto il consenso (valutazione vantaggi-svantaggi della terapia)? Quali problemi di “giustizia”, giuridici ed economici ha posto la terapia?

h) Come si procede nel seguire i risultati della terapia e come la si viene cambiando? Come agisce e reagisce il paziente alla terapia e ai suoi eventuali cambiamenti (anche, se ciò avviene, della diagnosi) ?

i) Quali sono le responsabilità degli altri operatori sanitari (p.e. infermieri) coinvolti nel caso? Quale può essere il ruolo dei familiari? Quale quello dei rapporti sociali nei quali il paziente è inserito?

l) Quali sono i problemi etici e bioetici che il medico ritiene di aver incontrato indipendentemente dal paziente, e quali quelli che ha il paziente indipendentemente dalla terapia?

m) Descrivere una gerarchia dei problemi conoscitivi, etici e bioetici incontrati. Quale è il peso dell’esperienza medica precedente nella stesura di tale gerarchia?

n) Il caso in esame ha un’importanza tale, dal punto di vista scientifico-medico e bioetico, da renderlo emblematico e capace di retroagire sul tipo di teoria adottata per la diagnosi e la terapia?


12 Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, trad. it., Einaudi, Torino 1997.

13 Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, trad. it., Einaudi, Torino 1997.

14 Emmanuel Lévinas, Difficile Libertà. Saggi sul giudaismo, trad. it., Editrice La Scuola, Brescia 1986.


15 ST I-II, q.50, a.5.

16 cfr.ST I-II, q.4,a.1

17 ST I-II, q.5,a.5.


18 ST. I, q. 48,a.5.


19 Voc. Lingua italiana, N. Zingarelli, Zanichelli, Milano 1996.

20 Metafisica, IV, 2, 1003 a.

21 Tractatus, 4.12; 4.121; 4.1212.

22 Ric.fil. par 122.


23 Dept. of Phil. Suny Buffalo. phismith@acsu.buffalo.edu, R. Casati, A. Varzi :Varzi@columbia.edu.


24da rass. stampa del “Il Sole 24” ore di maggio e ss., raccolte nel sito SWIF http://lgxserver.uniba.it/lui/swif.htm):

- Cfr. pagina sull’”ontologia” di B. Smith, A. Varzi, R. Casati, P. Di Lucia su “Il Sole 24 ore” del 24 maggio 1998.

- Cfr. Atti del Convegno tenutosi a Trento dal 6 all’8 giugno 1998 su Formal Ontology in Information System (Ios Press, Amsterdam, 1998, e-mail: order@iospress.nl), organizzato da N. Guarino (CNR di Padova).

- Cfr., Knowledge Interchange Project di Standford (California); tra gli altri, cfr., T. Gruber.

- Ontological Technology, Laguna Beach, California (ha assunto ‘ontologi’ per la progettazione di robot impiegati nella riparazione e nella manutenzione di aerei di grandi dimensioni.

- Cfr., sull’ontologia della realtà sociale, J. Searle, The Construction of Social Reality (trad. it. Ed. di Comunità).

- Cfr. R. Casati e A. Varzi, Buchi e altre superficialità. I buchi sono oggetti reali? Illusioni cognitive? Entità metafisiche?, Garzanti, 1996.

- M. Bertone, I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura, Laterza, Roma-Bari, 1998. (cfr. A. Reinach, I fondamenti a priori del diritto civile).

25 cfr. Convegno a Buffalo (New York), svolto il 24 e 25 aprile 1998; cfr., tra le altre, le relaz. di L. Zaibert sulla natura dei beni immobiliari; di D. Koespell sul diritto; di R. Tuomela, I. Johansson, A. Meijers e F. Atria sulla ontologia della realtà sociale; M. Thalos sul grado di libertà degli attori sociali nelle loro decisioni; D. Munch e R. Dipert su gli artefatti, sulla riproduzione su larga scala di sistemi tecnici utilizzati per offrire servizi medici via computer nelle aree rurali; T. Bench-Capon e P. Visser sui sistemi esperti e su l’idea di una biblioteca giuridica virtuale entro la quale indicizzare e confrontare in maniera sistematica ontologie sviluppate per scopi diversi; L. Lundsten sulla Televisione.


26 cfr., su tutto ciò, B. Smith, E’ nata l’ontologia applicata, in “Il Sole 24 ore”, 1998.

27 mereologia, cfr. studi di A. Varzi, riferimento alla nozione di “ontologia formale” di Husserl.

28 Cfr. progetto Esprit, fondato da P. Costa, con base in Portogallo.

29 cfr. P. Singer, ad es. problemi che nascono dalla gestione di un ospedale.

30cfr. studi di Varela, di Maturana, e M. Lind sulla “complessità”.

31 In questo breve scritto, non mi misurerò con la vasta letteratura internazionale sulla philosophische Praxis. Essa, infatti, è ormai di pertinenza della storiografia filosofica e non vive più di prese di posizione teoriche puntuali. Inoltre, i molteplici problemi teorici sollevati da tale letteratura (ad esempio, se la consulenza filosofica serva a risolvere problemi, se abbia un metodo proprio, se sia o no terapia, ecc.) non vivono vita facile, in quanto la prassi concreta non si lascia imporre tecniche e metodologie specialistiche dalla speculazione pura. Tutto ciò mi porta a parlare in prima persona, in nome di quell’idea di filosofia che esercito nella ricerca, nella didattica e, ora, anche nella consulenza.

32 Sui rapporti fra etica e scienza, in psichiatria, e sul rapporto fra diagnosi e terapia, dal punto vista esistenziale ed epistemologico, cfr. i miei due contributi: La scienza non è autoreferenziale, in Aa. Vv., Biologia domani: Dr. Jekill o Mr. Hyde?, a cura di J. Jacobelli, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, pp. 123-28, e Per una epistemologia della cura, in «Keiron», 2003, n. 12, pp….

33 In merito all’identità del “conflitto” e al suo carattere antinomico, cfr. il mio: La possibilità di capire un conflitto reale, in Aa. Vv., Culture per la pace, manifestolibri, Roma 2003, pp. 67-70. Una versione più breve di questo scritto è in «Giornale storico di psicologia dinamica», 2003, n. 53 (Alla guerra come alla guerra), pp. 97-100.


34 Per quanto riguarda l’impostazione di fondo di tutto ciò che segue, rimando, in modo organico, al mio: Metafisica degli accidenti. Dalla logica alla spiritualità: il tessuto delle cose, manifestolibri, Roma 2004

.

35 Cfr. il mio The Presentation of a Concept, in «il cannocchiale», 1998, n. 1, pp. 225-233 (nella sezione monografica, a cura di P. Perconti, dedicata al tema de «La Darstellung»). La versione italiana di questo scritto è apparsa, sotto il titolo di Lesibizione di un concetto, in «Alpha Omega», 2000, n. 1, pp. 57-67.

Il seguente passo del Filebo di Platone espone in modo insuperabile le doti che sono richieste al filosofo nel suo praticare il passaggio dall’uno ai molti: «Un dono degli Dei agli uomini, almeno a me pare, da qualche luogo divino fu gettato, ad opera di qualche Prometeo, insieme con un luminosissimo fuoco. E gli antichi che erano migliori di noi e che stavano più vicini di noi agli Dei, ci hanno trasmesso questo oracolo: che le cose che si dice che sempre sono, sono costituite di uno e di molti, e hanno per natura in se stesse limite ed illimitatezza. Dunque, poiché queste cose sono ordinate in questo modo, bisogna che noi poniamo e cerchiamo ogni volta, sempre un’unica Idea per ogni cosa – infatti, noi ve la troviamo insita –; se poi l’abbiamo colta, dopo dobbiamo esaminare se ve siano due, e se no tre o qualche altro numero, e, di nuovo allo stesso modo per ciascuna di quelle unità, finché non si veda non solo che l’uno iniziale è uno e molti e illimitati, bensì anche quanti è. E l’idea dell’illimitato non bisogna riferirla alla molteplicità, prima che si sia individuato tutto quanto il numero di essa, quello che sta a mezzo tra l’illimitato e l’uno, ed è solo allora che si può lasciar andare ciascuna unità di tutte le cose nell’illimitato. Gli Dei, dunque, come ho detto, ci hanno tramandato di indagare, di apprendere e di insegnare gli uni agli altri in questo modo. Invece, oggi, i sapienti tra gli uomini trattano l’uno come capita, e i molti più in fretta o più lentamente, passando immediatamente dall’uno all’illimitato, mentre sfuggono a loro le cose intermedie. Eppure è per queste che si distinguono i ragionamenti condotti fra noi in modo dialettico, o all’opposto in modo eristico» (Filebo, 16c-17a).

36 Nella prima Critica, Kant prepara il passaggio alla «Dialettica trascendentale» ricorrendo alla seguente immagine: «Al punto in cui siamo giunti abbiamo non solo percorso il territorio dell’intelletto puro, considerandone accuratamente ogni parte, ma l’abbiamo altresì misurato, assegnando il suo posto a ogni cosa. Ma questo territorio è un’isola che la natura ha racchiuso in confini immutabili. È il territorio della verità (nome seducente), circondata da un ampio e tempestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la parvenza, dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiacci, in corso di liquefazione, creano ad ogni istante l’illusione di nuove terre e, generando sempre nuove ingannevoli speranze nel navigante che si aggira avido di nuove scoperte, lo sviano in avventurose imprese che non potrà né condurre a buon fine né abbandonare una volta per sempre» (Critica della ragion pura [A 236/B 295], tr. it. di P. Chiodi, UTET, Torino 1967, p. 264).

A questo importante e bel passo di Kant, penso, si possa accompagnare, a mo’ di contrappunto, un brano di Herman Melville. Qui, il rischio, descritto da Melville che racconta il destino di un marinaio, Bulkington, non viene solo dal lato aperto dell’oceano, ma anche dalla dura terra ferma: «accadeva a lui come a una nave travagliata da fortuna, che trascorre miseramente lungo la costa a sottovento. Il porto sarebbe disposto a dare riparo, il porto è misericordioso, nel porto c’è sicurezza, comodità, focolare, cena, coperte calde, amici, tutto ciò che è benevolo al nostro stato mortale. Ma in quel vento di burrasca il porto, la terra, sono il pericolo più crudele per la nave. Bisogna ch’essa fugga ogni ospitalità; un urto solo della terra, anche se soltanto sfiorasse la chiglia, farebbe rabbrividire il bastimento da cima a fondo. Con ogni sua forza, esso spiega tutte le vele per scostarsi e, così facendo, combatte proprio coi venti che lo vorrebbero portare in patria, torna a cercare l’assenza di terra del mare sconvolto, precipitandosi per amor della salvezza perdutamente nel pericolo: il suo unico amico è il suo nemico più accanito» (Moby Dick o la Balena, tr. it. di C. Pavese, Adelphi, Milano 1987, pp. 138-39).


37 Su ciò, cfr. il mio: Esperienza. Esperienza mistica. Pensiero mistico, in Aa. Vv., Il fenomeno religioso oggi: tradizione, mutamento, negazione, Urbaniana University Press, Roma 2002, pp. …


38 Sull’importanza, in chiave speculativa, e non solo espositiva, del metodo della Quaestio, cfr. il capitolo, dedicato ad essa, in Metafisica degli accidenti, cit.


39 Per le caratteristiche che presenta questa forma di responsabilità, rimando a H. Jonas, Principio responsabilità, ed. it. a cura di P. P. Portinaro, Einaudi, Torino 2002.

Un passo di Jonas, fra i tanti, che tematizza la connessione fra responsabilità, etica e scienza, è il seguente: «la scienza integrale dell’ambiente non esiste ancora. Le scienze oggettive attinenti a quest’ambito (della natura e della economia) devono per lo meno estrapolare dalla rete delle causalità le opzioni pratiche, su cui si possa impostare un esame etico del dettaglio e questo processo è solo agli inizi. Non possiamo ancora sostituire il telescopio con la lente d’ingrandimento. Nel frattempo, finché non migliorano le premesse cognitive perché ciò si attui, il rispetto e la prudenza di cui si è parlato nel Principio responsabilità e la coscienza del pericolo devono trattenerci nel senso più generale da una rovinosa leggerezza e far crescere in noi uno spirito di nuova moderazione» (H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, tr. it. di P. Becchi, Einaudi, Torino 1997, p. 5).

40 Come per la nota precedente, il riferimento d’obbligo è, qui, in particolare, a E. Lévinas, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, tr. it. di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2004.

Anche di questo autore, voglio riportare un passo, dal libro appena citato, che giudico molto importante: «Sono noti gli ammirevoli passi di Ezechiele in cui la responsabilità dell’uomo si estende alle azioni del suo prossimo; fra gli uomini ciascuno risponde delle colpe altrui, ed anche del giusto che rischia di corrompersi noi rispondiamo. […] Perché l’eguaglianza possa fare il suo ingresso nel mondo, bisogna che gli esseri possano esigere da sé più di quanto non esigano dagli altri, che si sentano responsabili della sorte dell’umanità e che si pongano, in questo senso, in disparte rispetto all’umanità» (p. 39).


41 Proseguendo nel tipo di indicazione fornito nelle due note precedenti, rimando all’opera di M. Buber e, in particolare, ad un suo piccolo scritto: Il cammino delluomo, Edizioni Qiqajon Comunità di Bose, Torino 2004.


42 Solo per portare due esempi di “interruzione della comunicazione” con Dio, e della tragicità dell’esperienza che ne deriva, rimando, ovviamente, a Giobbe, nonché ad un breve scritto di Z. Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, tr. it. di A. L. Callow, Adelphi, Milano 1997.


43 Sull’importanza filosofica ed esistenziale di tale assunto, rimando all’opera di Tommaso d’Aquino e, in particolare, alla sua dottrina degli atti umani contenuta nella Somma Teologica (ST I-II, qq. 6-21).


44 A mo’ di commento personale su questo punto, rimando all’Appendice, dove presento una breve riflessione in merito.

45 Su questo punto, rimando al mio: La consulenza filosofica aziendale: una forma pratica per affrontare il rapporto tra etica ed economia, in «Italiaetica», 2007, n. 2.


46 Per la realizzazione del presente Schema di consulenza filosofica aziendale si è prevista una parte relativa alle “relazioni umane” di competenza dell’Ingegnere Vincenzo Fragolino, una relativa agli aspetti psicologici, psichiatrici e psicopatologici a cura dei Professori Gianfranco Buffardi e Ferdinando Brancaleoni ed una riferita alla sfera della “formazione continua” a cura della Dottoressa Alessia Porena.

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